Obiettivo Zero

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Obiettivo Zero
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Jack Mars

Jack Mars è l’autore bestseller di USA Today della serie di thriller LUKE STONE, che per ora comprende sette libri. È anche autore della nuova serie prequel FORGING OF LUKE STONE, e della serie spy thriller AGENTE ZERO.

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Copyright © 2018 di Jack Mars. Tutti i diritti sono riservati. Fatta eccezione per quanto consentito dalla Legge sul Copyright degli Stati Uniti d'America del 1976, nessuno stralcio di questa pubblicazione potrà essere riprodotto, distribuito o trasmesso in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo, né potrà essere inserito in un database o in un sistema di recupero dei dati, senza che l'autore abbia prestato preventivamente il consenso. La licenza di questo ebook è concessa soltanto a uso personale. Questa copia del libro non potrà essere rivenduta o trasferita ad altre persone. Se desiderate condividerlo con altri, vi preghiamo di acquistarne una copia per ogni richiedente. Se state leggendo questo libro e non l'avete acquistato, o non è stato acquistato solo a vostro uso personale, restituite la copia a vostre mani e acquistatela. Vi siamo grati per il rispetto che dimostrerete alla fatica di questo autore. Questa è un'opera di fantasia. Nomi, personaggi, aziende, società, luoghi, eventi e fatti sono il frutto dell'immaginazione dell'autore o sono utilizzati per mera finzione. Qualsiasi rassomiglianza a persone reali, viventi o meno, è frutto di una pura coincidenza.

LIBRI DI JACK MARS
SERIE THRILLER DI LUKE STONE
A OGNI COSTO (Libro #1)
IL GIURAMENTO (Libro #2)
AGENTE ZERO SPY SERIES
IL RITORNO DELL’AGENTE ZERO (Libro #1)
OBIETTIVO ZERO (Libro #2)
LA CACCIA DI ZERO (Libro #3)
Riassunto di Agente Zero – Libro 1 (riepilogo da includere nel libro 2)

Un professore del college e padre di due ragazze riscopre un passato dimenticato da agente operativo della CIA. Si fa largo attraverso l’Europa per scoprire perché gli è stata soppressa la memoria, e allo stesso tempo sventa un complotto terroristico per assassinare decine di leader mondiali.

Agente Zero: Quando il professor Reid Lawson è rapito e gli viene estratto dal cranio un dispositivo di soppressione della memoria, recupera i suoi ricordi dimenticati come agente della CIA Kent Steele, anche noto in tutto il mondo come Agente Zero.

Maya e Sara Lawson: Le due figlie adolescenti di Reid, rispettivamente di 16 e 14 anni, non sono a conoscenza del passato del padre come agente della CIA.

Kate Lawson: La moglie di Reid e madre delle sue due figlie, è morta all’improvviso due anni prima degli eventi del Libro 1 per un ictus ischemico.

Agente Alan Reidigger: Migliore amico di Kent Steele e collega agente operativo, Reidigger lo ha aiutato a farsi installare il soppressore di memoria in seguito a una sua aggressione indiscriminata durante la caccia a un pericoloso assassino.

Agente Maria Johansson: Collega operativa diventata amante di Kent Steele dopo la morte della moglie, Johansson si è dimostrata un’improbabile ma gradita alleata, durante il recupero delle sue memorie e nella lotta contro un’organizzazione terroristica.

Amun: L’organizzazione Amun è una fusione delle fazioni terroristiche di tutto il mondo. Il loro attentato al World Economic Forum di Davos, in un momento di distrazione delle autorità per via della presenza delle Olimpiadi Invernali, è stato sventato dall’Agente Zero.

Rais: Un americano espatriato diventato assassino in nome di Amun, Rais ritiene che il suo destino sia di uccidere l’Agente Zero. Durante il combattimento contro Steele alle Olimpiadi Invernali a Sion, in Svizzera, Rais viene gravemente ferito e lasciato per morto.

Agente Vicente Baraf: Baraf, un agente italiano dell’Interpol, si è dimostrato una preziosa risorsa aiutando l’agente Zero e Johansson a fermare l’attentato di Amun a Davos.

Agente John Watson: Un agente della CIA stoico e professionale, Watson ha salvato le figlie di Reid dalle mani dei terroristi in un molo del New Jersey.

PROLOGO

“Dimmi, Renault,” domandò l’uomo anziano. Gli brillavano gli occhi mentre guardava il caffè che ribolliva sotto il tappo della caffettiera in mezzo a loro. “Perché sei venuto qua?”

Il dottor Cicero era un uomo gentile, gioviale, il tipo che amava descriversi ‘un ragazzo di cinquantotto anni’. La sua barba era diventata grigia dopo i trenta e bianca quando ne aveva compiuti quaranta, e anche se di solito era tagliata con cura, il tempo passato nella tundra gliel’aveva assottigliata e arruffata. Indossava un giubbotto color arancione acceso, ma i suoi giovanili occhi blu erano ancora più vibranti.

Il giovane francese fu preso alla sprovvista dalla domanda, ma aveva già la risposta pronta, essendosela ripetuta nella mente diverse volte. “La World Health Organization, la WHO, ha contattato l’università perché aveva bisogno di assistenti ricercatori. E l’università ha offerto il posto a me,” spiegò in inglese. Cicero era nato in Grecia, e Renault veniva dalla regione costiera a sud della Francia, quindi parlavano in una lingua nota a entrambi. “A essere sincero, l’avevano offerto ad altre due persone prima di me. Loro l’hanno rifiutata. Invece io l’ho vista come una bella opportunità per…”

“Bah!” Lo interruppe l’uomo anziano con una smorfia. “Non ti ho chiesto i dettagli dei tuoi studi, Renault. Ho letto il tuo curriculum, e anche la tua tesi sulle previsioni di mutazione dell’influenza B. Un buon lavoro, devo dire. Non credo avrei potuto scrivere di meglio io stesso.”

“La ringrazio, signore.”

Cicero fece una risatina. “Risparmiati i ‘signore’ per i consigli di amministrazione e le raccolte fondi. Qua fuori, siamo tutti uguali. Chiamami Cicero. Quanti anni hai, Renault?”

“Ventisei, si… uh, Cicero.”

“Ventisei,” ripeté pensieroso l’uomo anziano. Tese le mani verso il calore della stufa da campo. “E hai quasi finito il tuo dottorato? È davvero notevole. Ma quello che voglio sapere è, perché sei qui? Come ho detto, ho letto il tuo fascicolo. Sei giovane, intelligente, indubbiamente di bell’aspetto…” Cicero ridacchiò. “Avresti potuto svolgere il tuo tirocinio in qualsiasi luogo al mondo, ne sono certo. Ma in questi quattro giorni che hai passato con noi, non ti ho sentito parlare di te stesso nemmeno una volta. Perché tra tutti i posti, sei venuto proprio qui?”

Come per dimostrare di cosa stava parlando, Cicero agitò una mano per aria, ma era inutile. La tundra siberiana si estendeva a perdita d’occhio in ogni direzione, tranne che a nord-est, dove si allargavano basse montagne coperte di bianco.

Le guance di Renault assunsero una tinta rosata. “Beh, a dirla tutta, dottore, sono venuto qui per studiare al suo fianco,” ammise. “La ammiro molto. Il suo lavoro nell’ostacolare l’epidemia del virus Zika è stato davvero incredibile.”

“Ecco!” replicò compiaciuto Cicero. “L’adulazione ti porterà lontano, o comunque ti farà avere un buon caffè nero.” Si mise un grosso guanto sulla mano destra, sollevò la caffettiera dalla stufa da campo alimentata a butano, e versò il ricco liquido bollente in due tazze di plastica. Era uno dei pochi lussi disponibili nella Siberia selvaggia.

Negli ultimi ventisette giorni della sua vita, la casa del dottor Cicero era diventata il piccolo accampamento stabilito a circa centocinquanta metri dalla riva del fiume Kolyma. L’insediamento era composto da quattro tende a forma di cupola in neoprene, una tettoia in tela chiusa da un lato a mo’ di protezione dal vento, e una camera sterile semi-permanente in kevlar. In quel momento i due scienziati si trovavano sotto la tettoia, preparandosi il caffè su una stufetta con due bruciatori in mezzo a tavolini pieghevoli coperti da microscopi, campioni di permafrost, equipaggiamento archeologico, due robusti computer adatti a ogni condizione meteorologica, e una centrifuga.

“Bevi,” disse Cicero. “È quasi l’ora del nostro turno.” L’uomo sorseggiò il caffè a occhi chiusi, e un basso mugolio di piacere gli sfuggì dalle labbra. “Mi ricorda casa mia,” commentò piano. “Hai qualcuno ad aspettarti, Renault?”

“Sì,” rispose il giovane francese. “La mia Claudette.”

“Claudette,” ripeté Cicero. “Un bel nome. Siete sposati?”

“No,” rispose semplicemente lui.

“È importante avere qualcosa a cui aspirare, nel nostro mestiere,” disse Cicero con tono malinconico. “Serve a dare una prospettiva in mezzo a un distacco spesso necessario. Io sono sposato con Phoebe da trentatré anni che Phoebe. Il mio lavoro mi ha portato per tutto il globo, ma al mio ritorno lei è sempre lì per me. Quando sono via, sento la sua mancanza, ma ne vale la pena; ogni volta che torno a casa è come se mi innamorassi di nuovo. Come si dice, la lontananza rafforza l’amore.”

Renault sorrise. “Non avrei mai pensato che un virologo potesse essere un romantico,” rifletté.

“Le due cose non si escludono a vicenda, ragazzo mio.” Il dottore si accigliò leggermente. “E tuttavia… non credo che sia Claudette a tormentare i tuoi pensieri. Sei un giovane uomo pensieroso, Renault. Più di una volta ti ho notato mentre fissavi la cima delle montagne, come se stessi cercando risposte.”

“Credo che abbia perso la sua vera vocazione, dottore,” disse Renault. “Avrebbe dovuto diventare sociologo.” Il sorriso gli svanì dalle labbra mentre aggiungeva: “In ogni caso ha ragione. Non ho accettato questo incarico solo per lavorare al suo fianco, ma anche perché mi sono dedicato a una causa… una causa fondata sulla fede. Tuttavia, mi spaventa pensare a cosa potrebbe portarmi questa fede.”

 

Cicero annuì comprensivo. “Come ho detto, il distacco spesso è necessario nel nostro mestiere. Dobbiamo imparare a essere spassionati.” Appoggiò una mano sulla spalla del giovane. “Fidati di un uomo che ormai ha una certa età. La fede è una motivazione importante, certo, ma a volte le emozioni hanno la tendenza a confondere il nostro giudizio e a offuscare le nostre menti.”

“Farò attenzione. Grazie, signore.” Renault gli lanciò un sorriso imbarazzato. “Cicero. Grazie.”

All’improvviso il walkie-talkie gracchiò invadente dal tavolo accanto a loro, spezzando il silenzio introspettivo sotto la tettoia.

“Dottor Cicero,” disse una voce femminile dall’accento irlandese. Era la dottoressa Bradlee, che chiamava dal sito dello scavo lì vicino. “Abbiamo scoperto qualcosa. Deve assolutamente vederlo. Porti la scatola. Passo.”

“Arriviamo subito,” rispose il dottore alla radio. “Passo.” Sorrise con aria paterna a Renault. “Sembra che dovremo muoverci prima del previsto. Faremmo meglio a prepararci.”

I due uomini appoggiarono le tazze ancora fumanti e si diressero in fretta verso la camera sterile in kevlar, entrando nella prima anticamera per indossare le tute anticontaminazione giallo acceso fornite dal World Health Organization. Prima fu il turno di guanti e stivali, sigillati attorno ai polsi e alle caviglie, poi toccò alla tuta che copriva tutto il corpo, e alle fine misero maschera e respiratore.

Si vestirono rapidamente ma in silenzio, quasi con reverenza, usando il breve interludio per una trasformazione fisica ma anche mentale, dalle chiacchiere casuali e piacevoli all’atteggiamento sobrio richiesto dal loro mestiere.

A Renault non piacevano le tute anticontaminazione. Rendevano i movimenti lenti e il lavoro fastidioso. Ma erano assolutamente necessarie per condurre la loro ricerca: individuare e confermare l’esistenza di uno degli organismi più pericolosi noti all’uomo.

Lui e Cicero uscirono dall’anticamera e si avviarono verso la riva del Kolyma, il lento fiume ghiacciato che scorreva a sud delle montagne virando leggermente verso est, fino a sfociare nel mare.

“La scatola,” esclamò poi Renault. “Vado a prenderla.” Corse indietro fino alla tettoia per recuperare il contenitore dei campioni, un cubo di acciaio inossidabile chiuso da quattro ganci e con il simbolo di rischio biologico stampato su ognuno dei lati. Tornò a passo svelto dal dottore, e i due ripresero la camminata frettolosa fino al siti dello scavo.

“Sai che cosa è successo poco lontano da qui, vero?” domandò Cicero nel cammino, attraverso la maschera.

“Sì.” Lui aveva letto il rapporto. Cinque mesi prima, un ragazzo di dodici anni di un villaggio locale si era ammalato subito dopo aver preso l’acqua dal Kolyma. All’inizio si era pensato che il fiume fosse contaminato, ma man mano che i sintomi si erano manifestati, era diventato tutto più chiaro. I ricercatori della WHO si erano mobilizzati non appena gli era giunta voce della malattia ed era stata aperta un’indagine.

Il ragazzo aveva contratto il vaiolo. Più nello specifico, era stato contagiato da un ceppo mai visto prima in età moderna.

Alla fine l’indagine li aveva portati alla carcassa di un caribù vicino alle rive del fiume. Dopo un’accurata analisi, l’ipotesi era stata confermata: il caribù era morto più di duecento anni prima e il suo corpo era diventato parte del permafrost. La malattia che lo aveva ucciso si era congelata con esso, ed era rimasta dormiente, fino a cinque mesi prima.

“È una semplice reazione a catena,” spiegò Cicero. “I ghiacciai si sciolgono e il livello dell’acqua del fiume e la temperatura si alzano. Ciò, a sua volta, scongela il permafrost. Chi sa quali malattie potrebbero essere in agguato sotto questo ghiaccio? Antichi ceppi mai visti prima… è del tutto possibile che alcuni risalgano a prima dell’avvento dell’uomo.” La tensione percettibile nella voce del dottore non era solo dovuta alla preoccupazione, ma anche a un tocco di eccitazione. Dopo tutto, era quello per cui viveva.

“Ho letto che nel 2016 hanno trovato dell’antrace in una fonte d’acqua, per via dello scioglimento di una calotta glaciale,” commentò Renault.

“È vero. Hanno chiamato me per quel caso. E anche per l’influenza spagnola che hanno trovato in Alaska.”

“Che cosa è successo al ragazzo?” domandò il giovane francese. “Il caso di vaiolo di cinque mesi fa.” Sapeva che il paziente, insieme ad altre quindici persone del suo villaggio, era stato messo in quarantena, ma a quel punto il rapporto si concludeva.

“È deceduto,” rispose Cicero. Non c’era emozione nella sua voce, ben diverso da quando aveva parlato di sua moglie, Phoebe. Dopo decenni passati a fare il suo lavoro, l’anziano medico aveva imparato la sottile arte del distacco. “Insieme ad altri quattro. Ma da questo abbiamo ricavato un vaccino adeguato, quindi non sono morti invano.”

“In ogni caso,” mormorò Renault, “è un peccato.”

A pochi passi dalla riva del fiume c’era il sito dello scavo, un’area della tundra di venti metri quadrati isolata da paletti metallici e nastro giallo brillante. Era il quarto sito che il team di ricerca aveva creato fino a quel momento nel corso dell’indagine.

Altri quattro ricercatori in tute anticontaminazione erano all’interno del quadrato isolato, tutti chini su un piccolo spiazzo d’erba vicino al suo centro. Uno di loro notò i due uomini in arrivo e gli si avvicinò.

Era la dottoressa Bradlee, un’archeologa in prestito dall’Università di Dublino. “Cicero,” disse, “abbiamo trovato qualcosa.”

“Che cos’è?” chiese lui, chinandosi per passare sotto il nastro giallo. Renault lo seguì.

“Un braccio.”

“Chiedo scusa?” esclamò Renault.

“Mostramelo,” disse Cicero.

La Bradlee li condusse fino allo spiazzo di permafrost disseppellito. Scavare nel permafrost, e farlo con così tanta precisione, non era un compito facile, Renault lo sapeva. Gli strati superiori di terra gelata di solito si scioglievano d’estate, ma quelli più profondi prendevano il nome dal fatto che erano permanentemente congelati nelle regioni polari. La fossa che Bradlee e la sua squadra avevano scavato era profonda quasi due metri e abbastanza ampia perché un uomo adulto potesse sdraiarvisi dentro.

Come una tomba, pensò cupo Renault.

E come aveva detto la donna, i resti congelati di un braccio umano parzialmente decomposto erano visibili in fondo al buco, contorti, quasi scheletrici, anneriti dal tempo e dalla terra.

“Mio Dio,” bisbigliò Cicero. “Sai cosa è questo, Renault?

“Un corpo?” ipotizzò lui. Almeno sperava che il braccio fosse attaccato ad altro.

Il dottore prese a spiegare in fretta, gesticolando con le mani. “Nel 1880, esisteva un piccolo insediamento non lontano di qui, proprio sulle rive del Kolyma. Gli abitanti originali erano nomadi, ma man mano che il loro numero cresceva, decisero di costruire qui un villaggio. Poi successe l’impensabile. Un’epidemia di vaiolo li colpì, uccidendo il quaranta percento della loro tribù in pochi giorni. Pensarono che il fiume fosse maledetto, e i sopravvissuti scapparono in fretta.

“Ma prima di farlo, seppellirono i loro morti, proprio qui, in una fossa comune sulle rive del fiume Kolyma.” Indicò il buco, dov’era il braccio. “Ora le acque alluvionali stanno erodendo le rive. Lo scioglimento del permafrost presto scoprirà tutti i corpi, e basta che un animale locale li morda e diventi un portatore perché ci troviamo davanti a una nuova epidemia.”

Per un momento Renault si dimenticò di respirare, mentre guardava i ricercatori vestiti di giallo, in fondo alla fossa, che prelevavano campioni dal braccio in decomposizione. Era una scoperta davvero eccitante; fino a cinque mesi prima, l’ultima epidemia di vaiolo naturale di cui si avesse notizia era avvenuta in Somalia, nel 1977. La World Health Organization aveva dichiarato la malattia scomparsa nel 1980. E tuttavia loro erano letteralmente sull’orlo di una tomba che sapevano infetta del pericoloso virus. Era una malattia che avrebbe potuto decimare la popolazione di una grossa città nell’arco di giorni, e il loro incarico era di estrarlo, controllarlo, e mandarne dei campioni alla WHO.

“Ginevra dovrà confermarlo,” disse piano Cicero, “ma se la mia ipotesi è corretta, abbiamo appena disseppellito un ceppo di vaiolo vecchio di ottomila anni.”

“Ottomila?” ripeté Renault. “Pensavo che avesse detto che l’insediamento risaliva al tardo diciannovesimo secolo.”

“Ah, è così!” esclamò l’altro uomo. “Ma allora la domanda diventa, come hanno fatto loro, un’isolata tribù nomade, a contrarlo? In una maniera simile, immagino. Scavando nella terra e trovando per caso qualcosa di congelato da molto tempo. Il ceppo ritrovato nella carcassa scongelata del caribù cinque mesi fa risaliva all’inizio dell’epoca dell’Olocene.” L’anziano virologo non sembrava riuscire a togliere gli occhi dal braccio che spuntava dal terreno congelato. “Renault, prendi la scatola, per favore.”

Il giovane recuperò il contenitore d’acciaio per i campioni e lo appoggiò sulla terra gelata vicina alla fossa. Aprì i quattro ganci che lo sigillavano e sollevò il coperchio. All’interno, dove l’aveva conservata in precedenza, c’era una MAB PA-15. Era una pistola vecchia ma non troppo pesante, non raggiungeva neanche un chilo con il suo caricatore da quindici colpi più uno in canna.

L’arma era appartenuta a suo zio, un veterano dell’esercito francese che aveva combattuto a Maghreb e in Somalia. Tuttavia a Renault non piacevano le pistole; erano troppo dirette, troppo limitate e troppo artificiali per i suoi gusti. Non come un virus, una perfetta macchina della natura, capace di spazzare via intere specie, sistematico e acritico allo stesso tempo. Insensibile, irremovibile e rapido; tutto ciò che doveva essere lui in quel momento

Infilò la mano dentro la scatola d’acciaio e la chiuse attorno alla pistola, ma ebbe un leggero tentennamento. Non voleva usarla. In effetti, si era affezionato molto all’ottimismo contagioso di Cicero, e alla luce negli occhi dell’anziano dottore.

Ma tutto ha un fine, pensò. La prossima esperienza aspetta.

Renault si erse con l’arma in pugno. Tolse la sicura e sparò spassionatamente ai due ricercatori su ciascun lato della fossa, diritto nel petto.

La dottoressa Bradlee emise uno strillo spaventato al rimbombo improvviso e scioccante della pistola. Indietreggiò goffamente riuscendo a fare due passi, ma poi Renault l’abbatté con due colpi. Il dottore inglese, Scott, tentò con poca fortuna di uscire dal buco prima che il francese lo trasformasse nella sua tomba con un singolo colpo alla sua testa.

Gli spari furono tonanti, assordanti, ma non c’era nessuno nel raggio di chilometri che potesse sentirli. Quasi nessuno.

Cicero era rimasto bloccato al suo posto, paralizzato dalla shock e dalla paura. A Renault erano serviti solo sette secondi per mettere fine a quattro vite, solo sette secondi perché la spedizione di ricerca diventasse un omicidio di massa.

Le labbra dell’anziano dottore tremarono dietro il suo respiratore mentre cercava di parlare. Alla fine balbettò una sola parola: “Pe-perché?”

Lo sguardo gelido di Renault era stoico, distaccato come avrebbe dovuto essere quello di qualsiasi virologo. “Dottore,” disse piano, “sta iperventilando. Rimuova il respiratore prima di svenire.”

Il respiro dell’altro uomo era laborioso e affannato, troppo rapido per la funzionalità del respiratore. Spostò lo sguardo dalla pistola nella mano di Renault, tenuta con semplicità lungo il fianco, alla fossa dove ormai il dottor Scott giaceva morto. “Io… io non posso,” balbettò. Se si fosse tolto la maschera avrebbe rischiato il contagio della malattia. “Renault, ti prego…”

“Il mio nome non è Renault,” disse il giovane uomo. “Io mi chiamo Cheval, Adrian Cheval. È esistito un Renault, uno studente universitario che era stato scelto per svolgere questo tirocinio. È morto ormai. Il curriculum e la tesi che ha letto erano le sue..”

Cicero sgranò ancora di più gli occhi iniettati di sangue. L’oscurità avanzava ai margini della sua visuale, minacciando di avvolgerlo e fargli perdere i sensi. “Io non… non capisco… perché?”

“Dottor Cicero, la prego. Rimuova il respiratore. Se deve morire, non preferirebbe farlo con una certa dignità? Alla luce del sole, invece che dietro una maschera? Se perderà i sensi, le assicuro che non si sveglierà mai più.”

Con dita lente e tremanti, lo scienziato afferrò lo stretto cappuccio giallo della tuta e lo abbassò sui capelli brizzolati. Poi prese il respiratore e la maschera e se li sfilò. Il sudore che gli aveva imperlato la fronte si raffreddò subito e si gelò.

 

“Voglio che sappia,” disse il giovane francese, Cheval, “che rispetto davvero lei e il suo lavoro, Cicero. Non trovo alcun piacere in questo.”

“Renault, o Cheval, chiunque tu sia, sii ragionevole.” Senza il respiratore, Cicero recuperò quanto bastava delle sue facoltà per supplicarlo. C’era solo un motivo per cui l’uomo davanti a lui stava compiendo un gesto tanto atroce. “Qualsiasi cosa stia progettando di fare con questo, ti prego, ripensaci. È molto pericoloso…”

Cheval sospirò. “Ne sono consapevole, dottore. Vede, ero veramente uno studente all’università di Stoccolma, e stavo davvero facendo un dottorato. Tuttavia l’anno scorso ho fatto un errore. Ho falsificato delle firme su un modulo di richiesta per ottenere i campioni di un raro enterovirus. Sono stato scoperto e mi hanno espulso.”

“Allora… lascia che ti aiuti,” lo supplicò l’altro. “I-io posso firmare una richiesta di quel tipo. Posso aiutarti con le tue ricerche. Qualsiasi cosa tranne…”

“Ricerche,” ripeté piano Cheval. “No, dottore. Non sono le ricerche a interessarmi. La mia gente sta aspettando, e non sono persone pazienti.”

Gli occhi di Cicero si riempirono di lacrime. “Non verrà niente di buono da questo. Lo sai.”

“Si sbaglia,” disse il giovane. “Molti moriranno, è vero. Ma moriranno nobilmente, aprendo la strada a un futuro migliore.” Cheval distolse lo sguardo. Non voleva sparare al vecchio dottore gentile. “Ma aveva ragione su una cosa. La mia Claudette, lei è reale. E la lontananza rafforza davvero l’amore. Devo andare ora, Cicero, e così anche lei. Ma la rispetto, e sono disposto a esaudire un ultimo desiderio. C’è qualcosa che vorrebbe dire alla sua Phoebe? Ha la mia parola che consegnerò il messaggio.”

Cicero scosse lentamente la testa. “Non rischierei mai di mandare un mostro come te sulla sua strada, per nessun messaggio al mondo.”

“Molto bene. Addio, dottore.” Cheval alzò la PA-15 e gli sparò un singolo colpo alla fronte. La ferita schiumò, e l’anziano dottore barcollò e collassò sulla tundra.

Nel silenzio scioccante che seguì, Cheval si prese un momento e in ginocchio mormorò una breve preghiera. Poi si mise al lavoro.

Ripulì la pistola dalle impronte e dalla polvere e la gettò nel gelido fiume Kolyma. Poi spinse i quattro corpi nella fossa insieme al dottor Scott. Con una pala e un picchetto, passò novanta minuti a coprire i cadaveri e il braccio decomposto esposto con la terra parzialmente gelata. Smontò il sito dello scavo, estraendo i picchetti e strappando il nastro. Fece con calma, lavorando meticolosamente; nessuno avrebbe tentato di contattare il team di ricerca per almeno altre otto o dodici ore, e ne sarebbero passate altre ventiquattro prima che la WHO mandasse qualcuno al sito. Un’indagine avrebbe di certo rivelato i corpi sepolti, ma Cheval non aveva intenzione di render loro le cose facili.

Infine, prese le fiale di vetro che contenevano i campioni del braccio in decomposizione e le infilò con cura, una alla volta, nei tubi di gommapiuma all’interno della scatola in acciaio inossidabile, acutamente consapevole del letale potere di ciascuna di loro. Poi richiuse i quattro ganci e riportò i campioni all’accampamento.

Nella camera sterile improvvisata, Cheval entrò nella doccia di decontaminazione portatile. Sei erogatori lo spruzzarono da ogni singola angolazione con una miscela di acqua bollente e un emulsionante. Una volta che ebbe finito, con cura e metodo si sfilò la tuta protettiva gialla, abbandonandola sul pavimento della tenda. Era possibile che i suoi capelli o la sua saliva, fattori che avrebbero potuto identificarlo, fossero dentro la tuta, ma aveva ancora una cosa da fare.

Nel retro della jeep fuoristrada di Cicero c’erano due taniche rosse rettangolari piene di benzina. Gliene sarebbe servita solo una per tornare alla civiltà. L’altra la versò liberamente nella camera sterile, sulle quattro tende di neoprene e la tettoia.

Poi gli diede fuoco. Subito si scatenarono le fiamme, alzando un fumo nero e unto verso il cielo. Cheval salì sulla jeep con la scatola d’acciaio per campioni e si allontanò. Non prese velocità, e non guardò nello specchietto retrovisore per vedere l’incendio nel sito. Guidò con calma.

L’Imam Khalil sarebbe stato in attesa. Ma il giovane francese aveva ancora molto da fare prima che il virus fosse pronto.