Minaccia Primaria: Le Origini di Luke Stone—Libro #3

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Minaccia Primaria: Le Origini di Luke Stone—Libro #3
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MINACCIA PRIMARIA

(LE ORIGINI DI LUKE STONE—LIBRO 3)

J A C K M A R S

Jack Mars

Jack Mars è l’autore bestseller di USA Today della serie di thriller LUKE STONE, che include sette libri. È anche autore della nuova serie prequel LE ORIGINI DI LUKE STONE, che al momento comprende tre libri, e della serie thriller AGENTE ZERO, che al momento include sette libri.

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Copyright © 2019 di Jack Mars. Tutti i diritti sono riservati. Fatta eccezione per quanto consentito dalla Legge sul Copyright degli Stati Uniti d'America del 1976, nessuno stralcio di questa pubblicazione potrà essere riprodotto, distribuito o trasmesso in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo, né potrà essere inserito in un database o in un sistema di recupero dei dati, senza che l'autore abbia prestato preventivamente il consenso. La licenza di questo ebook è concessa soltanto a uso personale. Questa copia del libro non potrà essere rivenduta o trasferita ad altre persone. Se desiderate condividerlo con altri, vi preghiamo di acquistarne una copia per ogni richiedente. Se state leggendo questo libro e non l'avete acquistato, o non è stato acquistato solo a vostro uso personale, restituite la copia a vostre mani e acquistatela. Vi siamo grati per il rispetto che dimostrerete alla fatica di questo autore. Questa è un'opera di fantasia. Nomi, personaggi, aziende, società, luoghi, eventi e fatti sono il frutto dell'immaginazione dell'autore o sono utilizzati per mera finzione. Qualsiasi rassomiglianza a persone reali, viventi o meno, è frutto di una pura coincidenza. Immagine di copertina Copyright Getmilitaryphotos, usata con la licenza di Shutterstock.com.

I LIBRI DI JACK MARS

SERIE THRILLER DI LUKE STONE

A OGNI COSTO (Libro 1)

IL GIURAMENTO (Libro 2)

SALA OPERATIVA (Libro 3)

CONTRO OGNI NEMICO (Libro 4)

OPERAZIONE PRESIDENTE (Libro 5)

IL NOSTRO SACRO ONORE (Libro 6)

REGNO DIVISO (Libro 7)

SERIE PREQUEL CREAZIONE DI LUKE STONE

OBIETTIVO PRIMARIO (Libro 1)

COMANDO PRIMARIO (Libro 2)

MINACCIA PRIMARIA (Libro 3)

SERIE DI SPIONAGGIO DI AGENTE ZERO

AGENTE ZERO (Libro 1)

OBIETTIVO ZERO (Libro 2)

LA CACCIA DI ZERO (Libro 3)

UNA TRAPPOLA PER ZERO (Libro 4)

DOSSIER ZERO (Libro 5)

IL RITORNO DI ZERO (Libro 6)

INDICE

CAPITOLO UNO

CAPITOLO DUE

CAPITOLO TRE

CAPITOLO QUATTRO

CAPITOLO CINQUE

CAPITOLO SEI

CAPITOLO SETTE

CAPITOLO OTTO

CAPITOLO NOVE

CAPITOLO DIECI

CAPITOLO UNDICI

CAPITOLO DODICI

CAPITOLO TREDICI

CAPITOLO QUATTORDICI

CAPITOLO QUINDICI

CAPITOLO SEDICI

CAPITOLO DICIASSETTE

CAPITOLO DICIOTTO

CAPITOLO DICIANNOVE

CAPITOLO VENTI

CAPITOLO VENTUNO

CAPITOLO VENTIDUE

CAPITOLO VENTITRÉ

CAPITOLO VENTIQUATTRO

CAPITOLO VENTICINQUE

CAPITOLO VENTISEI

CAPITOLO VENTISETTE

CAPITOLO VENTOTTO

CAPITOLO VENTINOVE

CAPITOLO TRENTA

CAPITOLO TRENTUNO

CAPITOLO TRENTADUE

CAPITOLO TRENTATRE

CAPITOLO TRENTAQUATTRO

CAPITOLO TRENTACINQUE

CAPITOLO TRENTASEI

CAPITOLO TRENTASETTE

CAPITOLO TRENTOTTO

CAPITOLO TRENTANOVE

CAPITOLO QUARANTA

CAPITOLO QUARANTUNO

CAPITOLO QUARANTADUE

CAPITOLO QUARANTATRE

CAPITOLO UNO

4 settembre 2005

5:15 p.m. Ora legale in Alaska (9:15 p.m. Ora legale orientale)

Martin Frobisher Oil Platform

Nove chilometri a nord dell’Arctic National Wildlife Refuge

Mare di Beaufort

Mar Glaciale Artico

Nessuno era pronto quando iniziò il massacro.

Qualche istante prima, l’uomo chiamato Big Dog era fuori sul parapetto. Portava una tuta da lavoro foderata, stivali dalla punta di ferro, grossi guanti di cuoio e uno sbiadito cappellino da baseball giallo su cui spiccava la scritta Hunt Hard.

Fuori faceva freddo, ma Big Dog non ci faceva più caso. E la temperatura non era ancora scesa fino ai minimi livelli. Intorno a lui si estendeva la vastità dell’Artico. Cieli grigi e acqua scura spezzata dal ghiaccio candido a perdita d’occhio.

Fumava una sigaretta e guardava una nave per il trasporto del personale a doppio scafo che avanzava tra i banchi di ghiaccio nella luce tetra del tardo pomeriggio. Non si potevano definire raggi solari. La coltre di nubi ormai incombeva sempre come una pesante coperta, e Big Dog non vedeva traccia di sole da almeno una settimana. Era facile dimenticarselo. Era facile dimenticarsi di qualsiasi cosa.

“Sono arrivati presto,” disse tra sé e sé.

C’era qualcosa che non gli tornava in quell’imbarcazione. Gli dava una brutta sensazione. Somigliava molto al tipo di barca usato per portare gli operai sulla piattaforma petrolifera per il loro turno di lavoro. In effetti, da dov’era lui riusciva a distinguere almeno una dozzina di uomini sul ponte, pronti a sbarcare non appena avessero raggiunto il molo.

Ma i cambi turno non arrivavano mai in anticipo, e le barche non apparivano mai senza preavviso o comunicazioni. Non là fuori. Cercò di pensare a qualche possibile spiegazione per l’apparizione di quell’imbarcazione. Ma aveva di nuovo i postumi di una sbornia e il dolore martellante alla testa, insieme con la confusione mentale data della mancanza di sonno, gli rendeva difficile riflettere.

Ma che importava? Sarebbe diventato tutto chiaro una volta che fosse arrivata. C’era anche la minuscola possibilità che qualcuno avesse fatto un errore. Molta gente nell’Artico non aveva idea di che giorno fosse. Non si parlava di lunedì, martedì, mercoledì o giovedì. Che senso avrebbe avuto? Ogni dodici ore si ripeteva sempre la stessa routine, lavoro e sonno, lavoro e sonno. Il tempo si fondeva insieme, si confondeva, assorbito nel duro acciaio e nel gelido oblio candido.

Chiunque fossero gli uomini sulla barca, a prescindere dai loro scopi, avrebbero dovuto parlare con Big Dog. Lui non era più cattivo come una volta. Era cresciuto in una riserva, per metà un indiano della tribù dei Piedi Neri, e per metà ‘americano’. E un tempo era stato il più cattivo di tutti.

Era alto due metri per centodieci chili di peso quando era in forma, e centoventi quando era gonfio di birra e rabbia; ma ormai aveva superato la cinquantina, ed era più rilassato, meno irascibile, forse persino un po’ misericordioso. In ogni caso era l’uomo più grosso da quelle parti, e forse persino di tutto l’Artico, e quella era la sua piattaforma petrolifera.

 

Big Dog aveva preso parte ai lavori di costruzione dell’impianto. Da cinque anni era il caposquadra. Non era un geologo, né un trivellatore, e nemmeno un impiegato della compagnia con tanto di laurea, ma non aveva importanza. C’erano più di novanta uomini in qualsiasi momento su quella piattaforma, e ognuno di loro, persino i capi, facevano rapporto a lui.

L’impianto era un ammasso d’acciaio da mezzo miliardo di dollari. Era la Martin Frobisher, o ‘la Bish’, come tendevano a chiamarla gli operai che ci lavoravano e vivevano sopra con turni di due settimane. La Bish era una torre blu e gialla, una pila di macchinari su una piattaforma sospesa sopra un buco. Di lì la trivella affondava nel fondale oceanico. Si ergeva a più di cento metri sopra l’acqua e si trovava a circa quattrocento chilometri dal circolo polare artico, su un’isola artificiale di due ettari e mezzo appena davanti alle coste dell’Arctic National Wildlife Refuge.

La Bish era di proprietà di una piccola compagnia chiamata Innovate Natural Resources. La Innovate aveva contratti con tutte le maggiori ditte — BP, ExxonMobil, ConocoPhillips — ma quella era la sua piattaforma privata. Spesso Big Dog pensava che i pesci grossi la lasciassero operare là fuori perché così avrebbero avuto modo di negare l’evidenza se qualcuno avesse indagato su cosa stavano facendo. La Innovate faceva il lavoro sporco per loro, e se qualcuno l’avesse scoperto, si sarebbe anche presa tutta la colpa.

L’isola era raggiungibile per quasi tutto l’anno da una strada di ghiaccio formata sopra il mare. Ma non in estate, e nemmeno a settembre. Non più. Il ghiaccio permanente era svanito, sciolto, e nei mesi più caldi rimaneva solo acqua. Con l’arrivo della brutta stagione, tornava il ghiaccio stagionale.

Sotto lo sguardo di Big Dog, la barca superò l’ultimo tratto e si fermò al molo. Un paio degli scaricatori di porto della Bish stavano iniziando a legare le sue cime quando successe una cosa strana. Fu tanto inaspettata che passò qualche secondo prima che la mente di Big Dog riuscisse a comprenderla.

Gli uomini scesero dalla barca e spararono agli operatori portuali.

BANG! Esplose il rumore secco degli spari, riecheggiando in lontananza nell’aria fredda e immobile. Nella luce morente, le sagome lontane degli uomini cadevano a terra con ogni colpo.

BANG!

BANG!

Poi Big Dog prese a correre. Con fragore di passi sulle passerelle metalliche del porto, raggiunse in fretta il centro di comando. Era simile alla cabina di una nave, solo che invece di dare sul mare aperto, aveva una ‘bella’ vista sulla trivella. A quell’ora c’erano dentro tre uomini. Quando entrò, gli altri operai erano già in movimento. Stavano aprendo l’armadietto dove conservavano i fucili. Quelle armi dovevano servire per gli orsi polari, non le incursioni.

“Che diavolo sta succedendo?” esclamò.

Un uomo robusto con gli occhiali, Aaron, un dipendente della compagnia, gli gettò un fucile di grosso calibro. Aveva un caricatore ricurvo che spuntava dal fondo, e un mirino sopra.

Big Dog mise un colpo in canna.

Stava soffrendo. Gli faceva male il cuore. E lo faceva infuriare. Quella era la sua piattaforma, e quelli là fuori erano i suoi uomini che venivano uccisi. Nei suoi dieci anni di servizio nell’industria del petrolio dell’Artico, non era mai successo niente del genere. C’erano state risse? Certo. Scazzottate, accoltellamenti, scontri a suon di stecche da biliardo e tubi di ferro. Persino sparatorie. In effetti, anche se di rado, qualcuno estraeva una pistola.

Ma un attacco del genere?

Assolutamente no.

E non poteva sopportarlo.

Gli uomini nella sala comando lo fissarono.

Quando aveva lasciato la riserva all’età di diciassette anni si era unito al Corpo dei Marine. Nell’esercito avevano notato la sua mira e lo avevano subito addestrato per diventare un cecchino.

“Quei figli di puttana.”

Non gli importava chi fossero e che cosa credessero di fare, non ci sarebbero riusciti. Tornò fuori sul molo, con l’arma stretta tra le mani possenti.

Sotto di lui, gli aggressori avevano ormai invaso tutta la struttura, diretti verso i capanni Quonsets che facevano da alloggi, sala ricreativa e mensa. Gli allarmi stridevano e gli operai iniziavano a emergere da ogni dove, in preda al panico. Regnavano confusione e paura.

Per Big Dog sparare era facile. Ognuno aveva le proprie capacità e abilità. Quella era la sua. Guardò nel mirino, prendendo la mira su uno degli invasori alla giacca nera nel bel mezzo del gruppo. Ce l’aveva lì, tanto vicino che avrebbe potuto tendersi e toccarlo. Premette il grilletto. Il fucile gli scalciò tra le mani e gli spinse contro una spalla.

BANG!

Il suono riecheggiò in lontananza, sul ghiaccio e sull’acqua.

Fu un colpo diretto al corpo, all’altezza del petto. L’uomo agitò scompostamente le braccia e lasciò cadere la pistola. Fu sbalzato all’indietro e sollevato in aria, per poi ricadere sulla terra gelata come una bambola di pezza.

Non era un buon segno. Dalla sua reazione Big Dog capì che l’uomo indossava un giubbotto antiproiettile. La pallottola non lo aveva trapassato, lo aveva solo fatto cadere all’indietro. Lo avrebbe sentito per un po’, e il giorno successivo sarebbe stato terribilmente dolorante, ma non sarebbe morto.

Non ancora, per lo meno.

Espulse la cartuccia esausta del fucile e mise un altro colpo in canna. Prese di nuovo la mira sull’uomo che stava strisciando per terra.

Si concentrò sulla sua testa.

BANG.

L’eco si perse nelle vaste distese vuote. Al posto del cranio si allargò un cerchio di sangue. In automatico, senza pensare, Big Dog espulse la cartuccia e mise in canna un altro colpo.

Il prossimo.

Un altro bastardo vestito di nero si era inginocchiato vicino all’uomo morto. Sembrava che stesse controllando i suoi segni vitali. Ma a che scopo? Non aveva più metà della testa.

Big Dog sorrise e puntò il mirino sulla sua testa. Il tizio era un idiota.

BANG.

Ma non più.

La testa del secondo uomo esplose proprio come era successo al primo, in uno spruzzo di rosso nell’aria, come lo soffio dallo sfiatatoio di una balena appena sotto la superficie del mare. I due cadaveri finirono uno sopra l’altro, un ammasso nero sulla terra bianca.

Big Dog abbassò il fucile per avere una visuale più ampia del campo. Si era scatenato il caos. Gli uomini correvano da tutte le parti. Sparavano. Cadevano morti a terra.

Troppo tardi, vide due aggressori inginocchiarsi. Gli puntarono contro le armi. Da quella distanza lui non riusciva a capire che cosa stessero imbracciando. Erano piccole mitragliatrici, compatte, forse Uzi, o magari MP5.

Passò meno di un secondo.

Big Dog si spinse via dalla ringhiera proprio quando la prima sventagliata di pallottole lo raggiunse. Lo attraversarono e lui si sentì il corpo sconvolto da uno scatto convulso. Poi arrivò il dolore, come in differita.

Gli scivolarono i piedi all’indietro, facendogli perdere l’equilibrio, e Big Dog cadde in avanti sulla ringhiera. Rischiò di dar di stomaco sotto di sé.

Ma la sua altezza e l’impeto lo spinsero al di là del parapetto. Ci fu un momento assurdo in cui parve appollaiato sulla sbarra di metallo, con tutto il peso sulla pancia. Poi cadde. Cercò disperatamente di afferrare il ferro dietro di lui, ma fu tutto inutile.

Passarono un paio di secondi. Poi l’IMPATTO.

Il tempo si fermò. Lui fluttuò. Quando aprì di nuovo gli occhi, si ritrovò a fissare un cielo che pareva buio. Era finita quella giornata maledetta, e le fredde stelle stavano iniziando a riempire la volta celeste a milioni, giocando a nascondino tra le nuvole in movimento. Batté le palpebre e tornò giorno.

Capì subito che cosa era successo. Era caduto sul pontile di ferro, due piani più sotto rispetto al livello del centro di comando. Era stato un brutto atterraggio. Doveva essersi fratturato tutte le ossa. Aveva il cranio spaccato.

E poi, quando ricordò gli eventi, fu come se i proiettili lo colpissero di nuovo. Fu colto dalle convulsioni. Gli avevano sparato con le mitragliatrici.

Era impossibile dire quanto tempo fosse passato. Forse pochi minuti. Forse ore. Cercò di muoversi. Era doloroso qualsiasi gesto. Ma era una cosa positiva, significava che aveva ancora la sensibilità. C’era un liquido scuro attorno a lui sul pontile. Il suo sangue. Ansimava con ogni respiro, come un sollevatore idraulico danneggiato, e gli gorgogliava del fluido in bocca.

Da qualche parte, poco distante, si udivano ancora spari. C’erano grida, urla di dolore, o forse di panico.

Un’ombra calò su di lui.

Due uomini gli si erano avvicinati, per controllarlo. Entrambi indossavano pesanti giacche nere con delle toppe bianche. Sopra sembrava esserci l’immagine di un aquila o di qualche rapace. Portavano pantaloni verde mimetico, come quelli usati dai soldati nelle missioni a terra, nelle zone del mondo non coperte di neve. E ai piedi avevano pesanti stivali neri.

I loro volti erano nascosti da passamontagna neri. Si vedevano solo gli occhi, duri e privi di compassione.

Che cosa credevano di fare?

“Chi…?” chiese Big Dog.

Era difficile parlare. Stava morendo e lo sapeva. Ma non era tipo da gettare la spugna. Non lo era mai stato e non sarebbe ancora successo.

“Chi siete?” riuscì a domandare.

Uno degli uomini disse qualcosa in un linguaggio che non capì.

L’invasore sollevò l’arma e la puntò su di lui. Il foro all’estremità della canna sembrava guardarlo, nero come una caverna. Incombeva sempre più grande.

L’altro aggiunse una frase. Doveva essere qualcosa di serio perché nessuno dei due rise. Le loro espressioni piatte non cambiarono. Probabilmente pensavano di fargli un favore, dandogli il colpo di grazia.

A Big Dog il dolore non faceva paura. Non credeva nel paradiso o nell’inferno. Da giovane aveva pregato i suoi antenati, ma se anche erano stati là fuori, non avevano ritenuto opportuno rispondergli.

Forse c’era una vita dopo la morte, e forse no.

Lui preferiva godersi l’esistenza lì sulla terra. Il dottore della piattaforma avrebbe potuto rimetterlo in sesto. Se fosse arrivato l’elisoccorso avrebbe potuto portarlo al piccolo centro traumatologico a Deadhorse. Un elicottero Apache avrebbe potuto attaccare e sgominare quei tizi.

Poteva succedere di tutto. Finché continuava a respirare era ancora in gioco. Alzò una mano insanguinata. Incredibile che potesse ancora muovere il braccio.

“Aspetta,” chiese.

Non voglio morire adesso.

Big Dog. Per decenni, era stato così che lo avevano chiamato tutti. Per la sua ex moglie lui era Big Dog, e così anche per i suoi capi. Una volta il presidente della compagnia era stato lì in visita, gli aveva stretto la mano e lo aveva chiamato Big Dog. Grugnì ripensandoci. Il suo vero nome era Warren.

Un piccolo lampo di luce e una fiammata parvero illuminare le fauci nere del fucile di fronte a lui. L’oscurità lo raggiunse e Big Dog non seppe mai se aveva davvero visto quella luce o se era stato tutto un sogno.

CAPITOLO DUE

9:45 p.m. Ora legale orientale

La Situation Room

La Casa Bianca

Washington, DC

“Signor Presidente, che cosa ne pensa?”

Clement Dixon era troppo vecchio per quella roba. Ecco cosa ne pensava.

Era seduto a capotavola e tutti gli occhi erano su di lui. Nel corso della sua lunga carriera in politica, aveva imparato a interpretare gli sguardi e le espressioni facciali. E la sua capacità di leggere i visi gli diceva che tutte quelle persone potenti avevano raggiunto la sua stessa conclusione. Il gentiluomo dai capelli bianchi che presiedeva a quella riunione di emergenza non era la persona giusta.

Era troppo vecchio.

Era stato un Freedom Rider, un attivista dei diritti civili, sin dal primissimo viaggio del gruppo nel maggio del 1961. Aveva rischiato la vita per promuovere l’abolizione della segregazione nel sud. Era stato uno dei giovani oratori nelle strade durante le rivolte della polizia a Chicago nell’agosto del 1968, e aveva preso candelotti di lacrimogeni in faccia. Aveva passato trentatré anni nella Camera dei Rappresentanti. La buona gente del Connecticut lo aveva eletto la prima volta nel 1972. Era stato Presidente della Camera due volte, una durante gli anni ’80, e poi di nuovo di recente.

 

Poi, all’età di settantaquattro anni, si era ritrovato all’improvviso presidente degli Stati Uniti. Era un ruolo che non aveva mai voluto né in cui si era mai visto. No, non esattamente. Non era vero. Da giovane, quando ancora era adolescente e nei suoi vent’anni, si era immaginato presidente.

Ma l’America che aveva sognato di governare non era quella attuale. Quell’America era un luogo diviso, invischiato in due conflitti all’estero pubblicamente riconosciuti, oltre che in una mezza dozzina di ‘operazioni segrete’ clandestine, tanto segrete che a quanto pareva persino le persone al loro comando esitavano a discuterne con i superiori.

“Signor presidente?”

Da giovane, non si era mai immaginato presidente di un’America ancora completamente dipendente dai combustibili fossili per il proprio fabbisogno energetico, in cui il venti percento della popolazione viveva nella povertà e un altro trenta percento ci andava pericolosamente vicino. Un’America dove milioni di bambini soffrivano la fame ogni giorno, e più di un milione di persone non aveva un posto in cui dormire. Un luogo dove il razzismo continuava a prosperare. Dove milioni di cittadini non potevano permettersi di ammalarsi, e spesso dovevano scegliere tra comprare un farmaco o il cibo. Non era quella l’America che aveva sognato di governare.

Quella era una sua versione da incubo, e tutto a un tratto lui ne era diventato il responsabile. Aveva passato tutta la vita a lottare per ciò che aveva creduto giusto, a combattere per i più alti ideali, ora si ritrovava invischiato nella melma. Quel lavoro comportava solo compromessi e sfumature di grigio, e Clement Dixon c’era finito in mezzo.

Era sempre stato un uomo credente. Di quei tempi si era ritrovato a pensare a come Gesù avesse chiesto a Dio di allontanare da lui il calice. Ma a differenza Sua, il destino di Dixon non era mai di finire sulla croce. C’era finito in seguito a una lunga catena di contrattempi e pessime decisioni.

Se il presidente David Barrett, un buon uomo che Dixon aveva conosciuto per anni, non fosse stato assassinato, nessuno avrebbe pensato di eleggere al suo posto il vice presidente Mark Baylor.

E se Baylor non fosse stato implicato da una montagna di prove circostanziali nell’omicidio di Barrett (non tante da incriminarlo, ma più che abbastanza per disonorarlo e costringerlo a ritirarsi a vita privata), non si sarebbe dimesso, lasciando la presidenza in mano al presidente della Camera dei Rappresentanti.

E se il mese prima Dixon non avesse accettato di rimanere alla Camera per un altro mandato, nonostante la sua età avanzata…

Allora non si sarebbe ritrovato in quella posizione.

Se solo avesse avuto la forza di volontà per rifiutare tutta quella faccenda… Solo perché la linea di successione prevedeva che il presidente della Camera si assumesse il compito, non significava che fosse costretto ad accettarlo. Ma moltissime persone avevano lottato a lungo perché Clement Dixon, portabandiera dei classici ideali liberali, diventasse presidente. Non aveva potuto voltar loro le spalle.

Quindi eccolo lì, stanco, vecchio e claudicante nei corridoi dell’Ala Ovest (sì, claudicante: l’attuale Presidente degli Stati Uniti soffriva di artrite a un ginocchio e aveva una pronunciata zoppia), sopraffatto dal peso dell’incarico che gli era stato affidato. Ogni momento che passava comprometteva sempre di più i suoi ideali.

“Signor presidente? Signore?”

Il presidente Dixon era seduto nella Situation Room. Per qualche motivo, quella sala di forma ovale gli ricordava una serie televisiva degli anni ’60, una trasmissione intitolata Space: 1999. Era la visione ridicola del futuro di un produttore di Hollywood. Severa, vuota, inumana, e progettata per massimizzare gli spazi. Era elegante e sterile, e non emanava alcun fascino.

Grandi monitor erano incassati nelle pareti, con un enorme schermo all’estremità del tavolo oblungo. Le sedie erano alte poltrone di pelle simile a quella su cui si sarebbe seduto il capitano di una nave spaziale.

Quella riunione era stata convocata con pochissimo preavviso. Come al solito, era in corso una crisi. Escludendo le sedie attorno al tavolo, tutte occupate, e qualche posto vicino alle pareti, la stanza era quasi vuota. C’erano i soliti sospetti: alcuni uomini in sovrappeso in giacca e cravatta, e diversi militari in uniforme snelli e dritti come un fuso.

Era presente anche Thomas Hayes, il nuovo vice presidente di Dixon, e lui ringraziava ogni giorno il Cielo per la sua esistenza. Avendo assunto la carica subito dopo essere stato il governatore della Pennsylvania, Thomas era abituato a prendere decisioni esecutive. Oltretutto lui e Dixon concordavano su molti argomenti. Insieme potevano formare un fronte unito.

Tutti sapevano che Thomas Hayes aveva delle mire sulla presidenza, e andava bene così. Poteva anche prendersela, per quel che riguardava Clement Dixon. Il suo vice presidente era alto, affascinante e intelligente, e trasmetteva un senso di autorità. E tuttavia la cosa più prominente in lui era il suo grosso naso. La stampa nazionale aveva già iniziato a prenderlo in giro.

Aspetta, Thomas, pensò Dixon. Aspetta solo di diventare presidente. I vignettisti politici disegnavano l’attuale capo di stato come un professore distratto, a metà tra Mark Twain e Albert Einstein, con la loro aria trasandata ma senza il semplice senso dell’umorismo e l’intelligenza penetrante che li contraddistingueva.

Se la sarebbero spassata con il grosso naso di Thomas.

All’estremità opposta del tavolo si trovava un uomo alto in uniforme verde militare, un generale a quattro stelle di nome Richard Stark. Era magro e in gran forma, come il maratoneta che di sicuro era, e aveva un viso che sembrava scolpito nella pietra. I suoi occhi erano quelli di un cacciatore, un leone oppure un falco. Parlava con assoluta certezza. Dava l’impressione di essere matematicamente sicuro di ogni sua opinione e delle informazioni riportate dai suoi sottoposti. Non aveva il benché minimi dubbio nella capacità dell’esercito americano di risolvere con la violenza qualsiasi problema, a prescindere da quanto fosse spinoso o complicato. Stark era praticamente una caricatura di se stesso. Sembrava che non avesse mai avuto un momento di incertezza nella sua vita. Come si diceva?

Spesso errato, mai nel dubbio.

“Me lo spieghi di nuovo,” gli domandò.

Riuscì quasi a percepire i gemiti silenziosi nella sala. Anche lui detestava doverselo far spiegare di nuovo. Odiava quello che aveva recepito, e non gli piaceva essere costretto a scenderci a patti. Non avrebbe voluto farlo.

Stark annuì. “Sissignore.”

Usando un lungo puntatore di legno il generale indicò una mappa sul grande schermo. La mappa mostrava la regione del North Slope in Alaska, un ampio territorio che si estendeva a nord dello stato, all’interno del circolo polare artico e confinante con il Mar Glaciale Artico.

C’era un puntino rosso nell’oceano appena a nord della costa. La zona era segnalata con il nome di ANWR, che Dixon sapeva stare per Arctic National Wildlife Refuge. Lui era stato uno degli attivisti che avevano lottato per decenni perché quell’importante regione fosse difesa dalle esplorazioni petrolifere e dalle trivellazioni.

Il generale ricominciò:

“La piattaforma petrolifera Martin Frobisher, di proprietà dell’Innovate Natural Resources, si trova qui, nell’oceano a dieci chilometri nord dell’Arctic Wildlife Refuge. Non abbiamo il conteggio esatto degli uomini presenti sulla piattaforma al momento dell’attacco, ma sappiamo che in qualsiasi momento all’incirca novanta uomini vivono e lavorano nello stabilimento e nella piccola isola artificiale che lo circonda. La piattaforma è attiva ventiquattro ore al giorno, trecentosessantacinque giorni all’anno, anche nelle condizioni atmosferiche più severe.”

Si interruppe e fissò Dixon.

Il presidente fece un movimento circolare con una mano.

“Ho capito. La prego, continui.”

L’altro annuì. “Poco più di trenta minuti fa, un gruppo di uomini sconosciuti e pesantemente armati ha attaccato la piattaforma e l’accampamento circostante. Sono arrivati in barca, su un falso tender per il trasporto dei dipendenti, con la scusa di trasportare alcuni operai sull’isola. Un numero indefinito di dipendenti è stato ucciso e preso in ostaggio. Secondo i nostri primi dati, desunti dalle riprese audio e video, gli invasori sono stranieri, anche se ancora non è chiaro da dove vengano.”

“Che cosa lo suggerisce?”

Stark scrollò le spalle. “Non sembra che parlino inglese. Anche se non abbiamo ancora una ripresa audio davvero chiara, i nostri esperti linguistici credono che parlino in qualche dialetto est-europeo, probabilmente slavo.”

Dixon sospirò. “Russo?”

Il giorno che aveva assunto quel lavoro ingrato, anzi, pochi minuti dopo aver prestato giuramento, aveva unilateralmente deciso di ritirare l’esercito americano da un confronto con i russi, che avevano ricambiato il favore ritirando il loro. Quel gesto gli era valso aspre critiche da parte delle fazioni più bellicose del suo paese. Se i russi avevano cambiato idea e ora li stavano attaccando…

Stark scosse piano la testa. “Non siamo ancora certi, ma crediamo di no.”

“Questo restringe il cerchio,” disse Thomas Hayes.

“Abbiamo idea di cosa vogliano?” domandò Dixon.

A quella domanda il generale fece un cenno di diniego molto più deciso. “Non ci hanno ancora contattato, e rifiutano di rispondere ai nostri tentativi di comunicazione. Abbiamo mandato degli elicotteri d’assalto a sorvolare il complesso, ma escludendo qualche incendio il posto sembra deserto. I terroristi, così come i prigionieri, devono essere all’interno della piattaforma o negli edifici circostanti, lontani da sguardi indiscreti.”

Si fermò.

“Immagino che voglia intervenire e riprendersi la piattaforma con la forza,” suppose Dixon.

Stark scosse di nuovo la testa. “Purtroppo è impossibile. Siamo sicuri al cento percento di poterci riprendere l’impianto, ma se avanzassimo in forze metteremmo in pericolo le vite degli uomini presi in ostaggio. Oltretutto, la struttura ha una natura sensibile, e se effettuassimo un contrattacco su larga scala, rischieremmo di attirare su di essa l’attenzione del pubblico.”