Il Nostro Sacro Onore

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Il Nostro Sacro Onore
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I L n O s T r O S A C R O O N O R E

(UN THRILLER DI LUKE STONE – LIBRO 6)

J A C K M A R S

Jack Mars

Jack Mars è un avido lettore, nonché un appassionato da tutta la vita del genere thriller. A OGNI COSTO è il suo primo libro. Visita il suo sito internet www.Jackmarsauthor.com per entrare a far parte della mailing list, ricevere un libro in omaggio e altri regali, e connettiti su Facebook e Twitter per non perdere le prossime uscite!

Copyright © 2017 di Jack Mars. Tutti i diritti riservati. Salvo per quanto permesso dalla legge degli Stati Uniti U.S. Copyright Act del 1976, è vietato riprodurre, distribuire, diffondere e archiviare in qualsiasi database o sistema di reperimento dati questa pubblicazione in alcuna forma o con qualsiasi mezzo, senza il permesso dell’autore. Questo e-book è disponibile solo per fruizione personale. Questo e-book non può essere rivenduto né donato ad altri. Se vuole condividerlo con altre persone, è pregato di aggiungerne un’ulteriore copia per ogni beneficiario. Se sta leggendo questo libro senza aver provveduto all’acquisto, o se l’acquisto non è stato effettuato unicamente per il suo uso personale, è pregato di restituirlo e acquistare la sua copia. La ringraziamo del rispetto che dimostra nei confronti del duro lavoro dell’autore. Questa storia è opera di finzione. Nomi, personaggi, aziende, organizzazioni, luoghi, eventi e incidenti sono frutto dell’immaginazione dell’autore o sono utilizzati in modo romanzesco. Ogni riferimento a persone reali, in vita o meno, è una coincidenza. Immagine di copertina Copyright evantravels, utilizzata con il permesso di Shutterstock.com.

LIBRI DI JACK MARS

SERIE THRILLER DI LUKE STONE

A OGNI COSTO (Libro 1)

IL GIURAMENTO (Libro 2)

SALA OPERATIVA (Libro 3)

CONTRO OGNI NEMICO (Libro 4)

OPERAZIONE PRESIDENTE (Libro 5)

IL NOSTRO SACRO ONORE (Libro 6)

SERIE PREQUEL CREAZIONE DI LUKE STONE

OBIETTIVO PRIMARIO (Libro 1)

COMANDO PRIMARIO (Libro 2)

AGENTE ZERO SPY SERIES

IL RITORNO DELL’AGENTE ZERO (Libro 1)

OBIETTIVO ZERO (Libro 2)

LA CACCIA DI ZERO (Libro 3)

UNA TRAPPOLA PER ZERO (Libro 4)



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INDICE

CAPITOLO UNO

CAPITOLO DUE

CAPITOLO TRE

CAPITOLO QUATTRO

CAPITOLO CINQUE

CAPITOLO SEI

CAPITOLO SETTE

CAPITOLO OTTO

CAPITOLO NOVE

CAPITOLO DIECI

CAPITOLO UNDICI

CAPITOLO DODICI

CAPITOLO TREDICI

CAPITOLO QUATTORDICI

CAPITOLO QUINDICI

CAPITOLO SEDICI

CAPITOLO DICIASSETTE

CAPITOLO DICIOTTO

CAPITOLO DICIANNOVE

CAPITOLO VENTI

CAPITOLO VENTUNO

CAPITOLO VENTIDUE

CAPITOLO VENTITRÉ

CAPITOLO VENTIQUATTRO

CAPITOLO VENTICINQUE

CAPITOLO VENTISEI

CAPITOLO VENTISETTE

CAPITOLO VENTOTTO

CAPITOLO VENTINOVE

CAPITOLO TRENTA

CAPITOLO TRENTUNO

CAPITOLO TRENTADUE

CAPITOLO TRENTATRÉ

CAPITOLO TRENTAQUATTRO

CAPITOLO TRENTACINQUE

CAPITOLO TRENTASEI

CAPITOLO TRENTASETTE

CAPITOLO TRENTOTTO

CAPITOLO TRENTANOVE

CAPITOLO QUARANTA

CAPITOLO QUARANTUNO

CAPITOLO QUARANTADUE

CAPITOLO QUARANTATRÉ

CAPITOLO QUARANTAQUATTRO

CAPITOLO QUARANTACINQUE

CAPITOLO QUARANTASEI

CAPITOLO QUARANTASETTE

“… reciprocamente impegniamo le nostre vite, i nostri beni e il nostro sacro onore.”

Thomas Jefferson

Dichiarazione d’indipendenza

CAPITOLO UNO

9 dicembre

23:45 ora del Libano (16:45 ora della costa orientale)

Sud Libano

“Loda Dio,” disse il giovane. “LodaLo. LodaLo.”

Diede una bella tirata alla sigaretta, la mano che andandogli alla bocca tremava. Non mangiava da dodici ore. Nelle ultime quattro, il mondo attorno a lui era diventato completamente nero. Era un camionista, preparato a guidare i tir più grossi, e aveva portato quello oltre il confine della Siria e poi per la campagna collinare del Libano, andando piano sulle strade tortuose, a fanali spenti per tutto il viaggio.

Era stata una corsa pericolosa. Il cielo era pieno di droni, di elicotteri, di aerei spia e di bombardieri – russi, americani e israeliani. Uno qualunque dei quali avrebbe potuto interessarsi al suo camion. Uno qualunque dei quali avrebbe potuto decidere di distruggere il camion, e senza alcuno sforzo. Aveva guidato per tutto il tempo aspettandosi continuamente che un missile lo colpisse senza preavviso, facendo di lui uno scheletro in fiamme in un rudere d’acciaio bruciato.

Ora aveva appena portato il camion su per una stretta e lunga via e l’aveva parcheggiato sotto a un tendone. Il tendone, tenuto su da pali di legno, era fatto per sembrare dal cielo la tipica superficie forestale – in effetti la cima era ricoperta da una fitta macchia. L’ubicazione era proprio quella che avevano anticipato loro.

Spense il motore, che scoreggiò e ruttò, con del fumo nero che si diffondeva da un fumaiolo dal lato del conducente mentre l’aggeggio si spegneva. Aprì la portiera della cabina e saltò giù. Non appena fatto, una squadra di uomini pesantemente armati si materializzò come fantasmi, emergendo dal bosco circostante.

“As salaam alaikum,” disse il giovane camionista mentre si avvicinavano.

“Wa alaikum salaam,” disse il leader della milizia. Era alto e massiccio, con una fitta barba nera e gli occhi scuri. Aveva un volto severo – non c’era compassione, lì. Fece un cenno al camion. “È questo?”

Il giovane diede un altro tiro tremolante alla sigaretta. No, disse quasi. Tu parli di un altro camion. Questo qui non è niente.

“Sì,” disse invece.

“Sei in ritardo,” disse il leader della milizia.

Il giovane fece spallucce. “Avresti dovuto guidare tu, allora.”

Il leader fissò il camion. Sembrava un tipico articolato – forse di quelli che trasportano legname, o mobili, o alimenti. Ma non era così. I miliziani ci si misero subito al lavoro, due salendo fino in cima la scala a pioli sul retro, due inginocchiandosi vicino al fondo. Ogni uomo aveva un cacciavite a batteria.

 

In velocità, rimossero a una a una le viti che tenevano insieme la parvenza di articolato. Nel giro di pochi istanti, rimossero dal fianco un grosso pezzo di alluminio. Un attimo dopo, ne rimossero un foglio più stretto dal retro. E poi lavoravano sull’altro lato, dove il conducente non poteva più vederli.

Si voltò a guardare le colline notturne e la foresta. Attraverso l’oscurità, riusciva a vedere le luci di un villaggio brillare a molte miglia di distanza. Una bellissima campagna. Era contentissimo di trovarsi lì. Il suo lavoro era finito. Lui non era un miliziano. Lui era un camionista. Lo avevano pagato per attraversare il confine e recuperare quel mezzo.

Non era neanche della regione, lui – viveva molto più a nord. Non aveva idea di quali accordi avessero preso quegli uomini per farlo tornare a casa, ma non gli importava. Liberatosi della macchina infernale che aveva guidato, se ne sarebbe tornato a casa da lì tutto contento pure a piedi.

Dalla stretta strada piena di buche stavano arrivando dei fanali, tutta una serie. Secondi dopo, apparve una fila di tre Mercedes SUV neri. Le portiere si aprirono all’unisono e da ciascuna auto si riversarono fuori dei tiratori. Ogni uomo aveva un pesante fucile o una mitragliatrice. Il portellone posteriore dell’auto centrale si aprì per ultimo.

Smontò dal SUV un robusto uomo dalla barba sale e pepe e con gli occhiali. Si appoggiò a un nodoso bastone di legno e avanzò zoppicando in modo pronunciato – il residuo di un attentato con autobomba alla sua vita risalente a due anni prima.

Il giovane camionista riconobbe l’uomo istantaneamente – era sicuramente l’uomo più famoso del Libano, nonché noto in tutto il mondo. Si chiamava Abba Qassem, ed era il leader assoluto di Hezbollah. La sua autorità – in materia di operazioni militari, programmi sociali, rapporti con governi stranieri, delitti e castighi, vita e morte – non era in questione.

La sua presenza rese il camionista nervoso. Giunse all’improvviso, come un mal di pancia. Il nervosismo che veniva quando si incontrava una celebrità, sì. Ma c’era di più. Che Qassem fosse lì voleva dire che quel camion – qualsiasi cosa fosse – era importante. Molto più importante di quanto avesse capito.

Qassem zoppicò fino al camionista, circondato dalle guardie del corpo, e gli diede un goffo abbraccio.

“Fratello mio,” disse. “Sei tu il camionista?”

“Sì.”

“Allah ti ricompenserà.”

“Grazie, Sayyid,” disse il camionista chiamandolo col suo titolo onorario, che suggeriva che Qassem fosse il discendente diretto dello stesso Maometto. Difficile affermare che il camionista fosse un musulmano devoto, ma alla gente come Qassem quella roba pareva piacere.

Si voltarono insieme. Gli uomini avevano già finito di rimuovere la lamina di metallo che copriva il camion. Adesso era stato svelato il vero mezzo. La parte anteriore era più o meno come prima – la cabina di un articolato, verniciata di colore verde scuro. Il lungo retro del mezzo era una piattaforma missilistica di lancio piatta a due cilindri. A giacere su ciascun cilindro di lancio c’era un grosso missile argentato, splendente e metallico.

Le due parti del camion erano separate e indipendenti l’una dall’altra, ma erano attaccate nel mezzo da un sistema idraulico, e su ciascun fianco da catene d’acciaio. Questo spiegava perché fosse stato difficile da controllare – la sezione posteriore non era assicurata a quella anteriore tanto saldamente quanto sarebbe piaciuto al conducente.

“Trasportatore Elevatore Lanciatore, lo chiamano,” disse Qassem spiegando al camionista che cosa aveva appena portato lì. “E solo uno dei tanti che il Perfettissimo ha trovato buono portarci.”

“Ah sì?” disse il camionista.

Qassem annuì. “Oh sì.”

“E i missili?”

Qassem sorrise. Era beatifico e calmo, il sorriso di un santo. “Armi molto avanzate. Lunga distanza. Accuratissime, per questo mondo. Più potenti di quanto abbiamo mai conosciuto. Dio volendo, useremo queste armi per mettere in ginocchio i nostri nemici.”

“Israele?” disse il camionista. Quasi soffocò alla parola. Gli venne voglia di mettersi in cammino verso nord in quel preciso istante.

Qassem gli mise una mano sulla spalla. “Dio è grande, fratello mio. Dio è grande. Molto presto, tutti sapranno con precisione quanto è grande.”

Si allontanò, zoppicando verso il lanciatore di missili. Il camionista lo guardò andare. Diede un altro tiro alla sigaretta, che si era fumato fino alla fine. Si sentiva un po’ meglio, più calmo. Il suo lavoro era finito. Quei pazzi potevano cominciare un’altra guerra, se volevano – probabilmente a nord non ci sarebbe arrivata.

Qassem allora si voltò e lo guardò. “Fratello,” disse.

“Sì?”

“Questi missili sono un segreto, sai. Nessuno può sentirne parlare.”

Il camionista annuì. “Certo.”

“Hai amici, famiglia?”

Il camionista sorrise. “Sì. Una moglie, tre figli. Piccoli. Ho ancora mia madre. Sono noto nel mio villaggio e nel circondario. Suono il violino da quando ero piccolissimo, e tutti mi chiedono una canzone.”

Fece una pausa. “Una vita piena.”

Il sayyid annuì, un po’ triste.

“Allah ti ricompenserà.”

Al camionista quelle parole non piacquero. Era la seconda volta che Qassem menzionava la ricompensa. “Sì. Grazie.”

Vicino a Qassem, due grossi uomini si tolsero i fucili dalle spalle. Un secondo dopo li avevano pronti, puntati sul camionista.

Il camionista si mosse appena. Non sembrava giusto. Stava accadendo così velocemente. Il cuore gli martellava nelle orecchie. Non si sentiva le gambe. Né le braccia. Aveva intorpidite persino le labbra. Per un secondo, cercò di pensare a che cosa potesse aver fatto per offenderli. Niente. Non aveva fatto niente. Tutto ciò che aveva fatto era stato portare lì il camion.

Il camion… era un segreto.

“Aspettate,” disse. “Aspettate! Non lo dirò a nessuno.”

Qassem adesso scosse la testa. “L’Onnisciente ha visto il tuo bel lavoro. Ti aprirà i cancelli del Paradiso questa sera stessa. È la promessa che ti faccio. È la mia preghiera.”

Troppo tardi, il camionista si girò per scappare.

Un istante dopo, udì il forte CRACK quando la prima arma sparò.

E si accorse, mentre il terreno gli veniva incontro veloce, che la sua intera vita era stata vana.

CAPITOLO DUE

11 dicembre

9:01 ora della costa orientale

Studio Ovale

Casa Bianca, Washington DC


Susan Hopkins non riusciva quasi a credere a quello che vedeva.

Si trovava in piedi sul tappeto del salottino dello Studio Ovale – le comode poltrone dagli alti schienali erano state rimosse per i festeggiamenti della mattina. Trenta persone gremivano la stanza. Kurt Kimball e Kat Lopez le stavano accanto, così come Haley Lawrence, il suo segretario della Difesa.

Lo staff della residenza della Casa Bianca era tutto lì su sua insistenza, lo chef, le cameriere, i domestici, che si mescolavano agli altri invitati – i direttori della National Science Foundation, della NASA e del National Park Service, per dirne alcuni. C’era una manciata di personalità del giornalismo, così come due o tre cameramen attentamente selezionati. C’erano molti agenti dei servizi segreti, accostati alle pareti e a punteggiare la folla.

Su un grosso monitor televisivo montato vicino alla parete di fondo, Stephen Lief, un uomo che Susan poteva aspettarsi di non vedere mai in carne e ossa finché il suo mandato di presidente non fosse finito, stava per prestare il giuramento del vicepresidente. Stephen era sul finire della mezza età, assennato negli occhiali rotondi, i capelli grigi che si diradavano e si ritiravano sulla cima del cranio come un esercito in una ritirata disorientata. Aveva un corpo vagamente a pera, nascosto da un gessato Armani blu da tremila dollari.

Susan conosceva Stephen da tempo. Sarebbe stato il suo sfidante principale nelle ultime elezioni, se non fosse intervenuto Jeff Monroe. Prima, nei suoi giorni da senatore, era stato l’opposizione leale dei banchi opposti, un conservatore moderato, anonimo – cocciuto ma non pazzoide. Ed era un uomo carino.

Ma era anche del partito sbagliato, e per questo lei si era beccata molte critiche accese dagli ambienti liberali. Era un possidente terriero aristocratico, di famiglia ricca – uno della Mayflower, la cosa più simile alla nobiltà che avesse l’America. A un certo punto, pareva che avesse pensato che diventare presidente fosse suo diritto di nascita. Non certo il tipo di Susan – gli aristocratici che si credevano dei privilegiati tendevano a mancare del tocco comune che aiutava a connettersi con le persone che, ipoteticamente, si dovevano servire.

Era un provvedimento che dimostrava quanto Luke Stone le fosse entrato dentro, anche solo che avesse preso in considerazione Stephen Lief. Era stata un’idea di Stone. Stone gliel’aveva presentata scherzando, mentre i due giacevano insieme nel grande letto presidenziale. Lei stava riflettendo ad alta voce sui possibili candidati alla vicepresidenza, e Stone aveva detto:

“E perché non Stephen Lief?”

Lei aveva quasi riso. “Stone! Stephen Lief? Ma dai.”

“No, dico sul serio,” aveva detto.

Era disteso sul fianco. Il suo corpo nudo era magro ma duro come la roccia, cesellato e coperto di cicatrici. Uno spesso bendaggio gli copriva la recente ferita da arma da fuoco – era modellato sul torso lungo il fianco sinistro. Le ferite varie non la disturbavano – lo rendevano più sexy, più pericoloso. Gli occhi azzurro scuro la osservavano dalle profondità del volto segnato alla Marlboro Man, con un mezzo sorriso malizioso sulle labbra.

“Sei bellissimo, Stone. Come un’antica statua greca, uh, con una benda. Magari però i ragionamenti lasciali a me. Tu puoi adagiarti lì, a fare il bello.”

“L’ho interrogato alla sua fattoria, in Florida,” disse Stone. “Gli ho chiesto che cosa sapesse su Jefferson Monroe e sui brogli elettorali. Lui è stato chiaro con me fin da subito. Ed è bravo con i cavalli. Delicato. Deve pur voler dire qualcosa.”

“Lo terrò a mente,” disse Susan. “La prossima volta che cerco un cowboy.”

Stone scosse la testa, ma continuò a sorridere. “Il paese è spaccato, Susan. Gli eventi recenti hanno peggiorato più che mai i sentimenti. Tu te la cavi ancora bene, ma il Congresso ha i rating di approvazione più bassi della storia americana. Se credi ai sondaggi, i politici, i talebani e la Chiesa di Satana hanno tutti un punteggio molto simile, in America. Gli avvocati, l’agenzia delle entrate e la Mafia italiana hanno numeri molto più alti.”

“E lo dici perché…”

“Perché ciò che vuole il popolo americano adesso è che destra e sinistra, liberali e conservatori, si uniscano un pochino e comincino ad agire per il bene del paese. Strade e ponti devono essere ricostruiti, il sistema ferroviario dovrebbe stare in un museo, le scuole pubbliche cadono a pezzi, e non costruiamo un nuovo aeroporto maggiore da quasi trent’anni. Siamo al trentaduesimo posto nella sanità, Susan. Siamo in basso. Possiamo davvero avere altri trentun paesi davanti a noi? Perché te lo dico, sono stato in giro per il mondo, e i paesi buoni finiscono al numero ventuno o ventidue. Questo ci mette dietro a un sacco di brutti paesi.”

Sospirò. “Con un po’ di sostegno da parte dei conservatori, potremmo riuscire a far passare il mio pacchetto infrastrutture…”

Lui le tamburellò con un dito sulla fronte. “Adesso stai usando la zucca. Lief ha passato in senato diciotto anni. Conosce il gioco meglio di chiunque altro.”

“Pensavo che la politica non facesse per te,” disse lei.

“Infatti.”

Scosse la testa. “È quello che mi spaventa.”

Lui si mosse verso di lei. “Non spaventarti. Te lo dico io che cosa fa per me.”

“Dimmi.”

“La fisicità,” disse. “Con una come te.”

Adesso scacciò i ricordi, con il fantasma di un sorriso in volto. Si era alienata per un po’. Sul monitor, Stephen Lief si stava preparando per il giuramento. Si teneva nel vecchio studio di Susan all’Osservatorio navale. Ricordava bene la stanza e la casa. Era la bellissima villa turrita e timpanata in stile Regina Anna di metà Ottocento sul terreno dell’Osservatorio navale di Washington DC. Per decenni era stata la residenza ufficiale del vicepresidente degli Stati Uniti.

 

Si metteva sempre alla grande finestra a golfo visibile sul monitor, a fissare i bellissimi prati in pendenza del campus dell’Osservatorio navale. Il sole del pomeriggio passava per quella finestra, in un gioco incredibile di luci e ombre. Per cinque anni, aveva vissuto in quella casa da vicepresidente. L’aveva adorata, e ci si sarebbe ritrasferita in un battito di ciglia, se avesse potuto.

Ai vecchi tempi, di pomeriggio e di sera, usciva a fare jogging sul terreno dell’Osservatorio con gli uomini dei servizi segreti. Quelli erano anni di ottimismo, di discorsi entusiasmanti, di saluti e incontri con migliaia di americani speranzosi. Ormai sembrava una vita fa.

Susan sospirò. La mente vagava. Ricordò il giorno dell’attentato a Mount Weather, l’atrocità che l’aveva catapultata fuori dalla sua felice vita da vicepresidente nel furente tumulto degli ultimi anni.

Scosse la testa. No, grazie. Non avrebbe pensato a quel giorno.

Attraverso lo specchio, su una piccola pedana, si trovavano due uomini e una donna. I fotografi vagavano come moscerini, scattando foto a loro.

Uno degli uomini sulla pedana era basso e calvo. Indossava una lunga toga. Era Clarence Warren, presidente della Corte Suprema degli Stati Uniti. La donna si chiamava Judy Lief. Indossava un tailleur azzurro brillante. Aveva un sorriso che andava da un orecchio all’altro e teneva una Bibbia aperta in mano. Il marito, Stephen, aveva messo la mano sinistra sulla Bibbia. La destra era sollevata. Lief veniva spesso considerato arcigno, ma persino lui sorrideva un po’.

“Io, Stephen Douglas Lief,” disse, “giuro solennemente di sostenere e difendere la Costituzione degli Stati Uniti contro tutti i nemici, esterni e interni.”

“Di serbarle fedeltà…” suggerì il giudice Warren.

“Di serbarle fedeltà e vero affidamento,” disse Lief. “Senza alcuna riserva mentale, e di bene e fedelmente adempiere ai doveri della carica che sto per assumere.”

“Dio mi aiuti,” disse il giudice Warren.

“Dio mi aiuti,” disse Lief.

Nella mente di Susan apparve un’immagine – un fantasma del passato recente. Marybeth Horning, l’ultima persona ad aver prestato quel giuramento. Era stata una mentore per Susan al Senato, e una specie di mentore da vicepresidente. Con la sua figura piccola e sottile e i grandi occhiali, sembrava un topolino, ma ruggiva come un leone.

Poi le avevano sparato e l’avevano uccisa per… cosa? Per la sua politica liberale, si potrebbe dire, ma non era vero. Alla gente che l’aveva uccisa le differenze politiche non interessavano – tutto ciò che interessava loro era il potere.

Susan sperava che il paese potesse superare la cosa, adesso. Osservò Stephen in tv abbracciare la sua famiglia e altri amici.

Si fidava di quell’uomo? Non lo sapeva.

Avrebbe cercato di farla uccidere?

No. Non credeva. Lui aveva più integrità. Non aveva mai sentito che fosse un subdolo, quando era senatrice. Immaginava che fosse un inizio – aveva un vicepresidente che non avrebbe cercato di ucciderla.

Si immaginò i giornalisti del New York Times e del Washington Post chiedere: “Cosa le piace dell’idea di avere Stephen Lief come suo nuovo vicepresidente?”

“Be’, non mi ucciderà. E questo mi dà una bella sensazione.”

Poi Kat Lopez fu al suo fianco.

“Uh, Susan? La microfoniamo così può congratularsi con il vicepresidente Lief e dirgli due parole di incoraggiamento.”

Susan balzò fuori dal sogno a occhi aperti. “Certo. Buona idea. Probabilmente gli faranno comodo.”