Ora, il mostro, vive in me ed ogni tanto se ne esce e va a pisciare

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Ora, il mostro, vive in me ed ogni tanto se ne esce e va a pisciare
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10969 Berlin

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Tutti i diritti riservati.

Diritti d’autore: Donato Scienza

Pubblicato da ProMosaik, 2020.

Prefazione di Pierpaolo Ascari

A volersi rifugiare nei classici, non risulterebbe del tutto forzato provare a comprendere le poesie di Donato Scienza nella prospettiva del sublime.

Così lo coglieremmo di spalle, mentre l’impermeabile rosso gli sventola intorno e lui passeggia sotto i lampioni ancora accesi di una città che si rianima alle prime luci dell’alba.

Il sublime è quella cosa per cui l’uomo dei filosofi sente che la propria destinazione è superiore rispetto alle forze che lo sovrastano. E di questa oppressione, Donato Scienza risulta una sorta di testimone che porta le cicatrici, anche se a volte le mostra danzando. Perché bisogna essere un po’ spostati per trovare qualche motivo di esultanza nel puntuale disaccordo tra il dispendio della propria grazia e la pidocchieria dei giorni.

Eppure, più la vita colpisce duro e più queste poesie la celebrano, senza mai trascurare di includervi un piccolo gesto, un’invettiva o l’erezione che riscattano qualunque cosa.

Sempre, anche quando si ha la sensazione che un minuto prima di mettersi a fischiettare lo swing, il ribelle in impermeabile rosso abbia effettivamente partecipato a un violentissimo riot metropolitano, spaccato vetrine, saccheggiato empori di superalcolici e abiti gessati, generi alimentari e mazzi di fiori, per poi precipitarsi con un’eleganza claudicante ma ostinata a casa di un’amica. E qua accade qualcosa di sorprendente, perché davanti ai loro corpi che nonostante tutto si tornano a incontrare, Scienza trova pace, profondamente grato per l’intelligenza e l’anarchia dei corpi, che pur non dimenticando mai nulla continuano a gioire.

Questo mi sembra il punto, allora: far gioire tutto il passato. Un punto difficile, che contrasta con il luogo comune per il quale la felicità non ha memoria oppure è malinconica, commozione per la felicità consumata.

Mentre in queste poesie il profumo di pasta e fagioli, l’odore di officina, la spuma, i ghiaccioli fatti in casa o le feste in cui la moglie del bidello giocava a fare la gran signora, sono tutte promesse di pienezza che il corpo custodisce e lascia fluire.

E dentro questo corpo sempre innamorato e intelligente, quella di Donato Scienza che raccoglie il piscio degli angeli e si raccomanda di sputare qualunque rimasuglio di dio, si direbbe quasi una mistica. Anche mondana, eventualmente, come quando compie il gesto di aprire la portiera di un’automobile immaginaria soltanto per testimoniare la propria devozione a una compagna.

L’importante, sembra dire, è impedire a qualunque divinità di usurpare il senso delle nostre azioni, della malattia, di una dedica fatta alla radio locale o dell’ultimo bacio che sarà, perché a redimere ogni vita sia sempre e soltanto la vita stessa.

Poesie

Ti ricordo.

Bevevi spuma in un bagno di Spotorno.

Ed io, carezzavo i tuoi capelli.

Lunghi, lisci neri, al profumo d’erba

appena tagliata.

Pensavamo ad un dio.

Ad un dio un po’ comunista.

Ad un dio da odiare ma, a modo suo, un dio giusto.

Tu, figlia della borghesia torinese.

Io, figlio e nipote di operai della provincia scordata.

I baci sapevano di sapone dolce

e di aranciata e plastica giovane.

Ora, sei avvocato ed io, un cazzo di pregiudicato.

T’ho rivista

e ci ha riuniti, la Miseria accademica di questi anni.

Tu, vecchia

ed io un poco meno.

Scegli me, a raccogliere il piscio degli angeli.

Chiamami, per un abbraccio feroce,

per un libro americano da raccontare.

Soffia, sul mio divorato petto,

il tuo alito di giovane capra

allevata a cedri e latte grasso.

Dammi le mani

ed ascolta le parole.

I tuoi occhi santi e conturbanti.

La tua lingua dolce sulle labbra.

Tra l’anziano orgasmo

e lì, dove finisce il dolore.

Come un Oceano Swing,

potente e chiaro,

non busso alla porta del tuo amore.

Le pelli

son confuse e sbucciate-

Il sangue, come acqua di montagna,

va goduto e rifiutato.

Ed una musica

sta penetrando i miei dolori.

È acqua pesante,

il fiato

che non arriva al pianto.

Silenzio

nella città deserta.

Solo, urla

il dolore della miseria,

solitudine

tra le nuvole basse

della decenza.

Ho amato i miei demoni,

tra un mare ubriaco di falsità

e laiche speranze.

Ora,

sorrido al trambusto dei tuoi amori compressi.

E vi giganteggiano i semi perduti!

Non era Luce,

non erano frenesie.

Era musica

fresca e lunga.

Non ricordo il motivo ma,

i colori

spenti,

li ho ancora qui.

Tra le pagine della ragione

e le Miserie della vita.

Dici?

No, non credo di aver la testa

per farlo.

E poi, ci sono delle colline strepitose

a pochi chilometri da qui.

Abbiamo due automobili ma,

ne basta una sola.

Ti piace il mio pullover a losanghe?

Me l’hai regalato tu. O forse tuo cugino.

Sei bella, sai?

Così.

Nuda.

Mi piacciono le tue gambe

tiepide come colline astigiane.

Brindiamo?

C’era la neve.

Nelle case, il profumo di pasta e fagioli.

Nei bar, vino e spuma.

Il jukebox, un lusso.

Gare di ciclismo amatoriale.

“Domani, suonerò il citofono

nella casa di fronte.”

Ci abitava la Elsa.

C’era la neve.

Ed ovunque, era Periferia.

Hai presente quei fiori?

Quelli belli, colorati e profumati?

Hai presente quei viaggi belli

ancor più delle vacanze?

Hai presente quei sogni

per i quali val la pena svegliarsi mai?

Quelli in cui, senti persino la musica

e nei quali

non esistono stagioni.

Hai presente quel vino

di quel giorno speciale?

Il sangue che scorre

nelle vene innamorate.

Lo sputo dolce.

I piedi puliti e stanchi.

Gli abbracci commossi

ed il calore delle nottate fredde.

Mi innamorerò

del vetro e delle fughe.

Mi innamorerò, prometto,

come felce tra le ortiche.

Mi innamorerò

delle gambe della gente in mezzo a noi.

Come Pietra in fondo al lago,

Come luce, tra le Luci.

Indossavo un soprabito rosso.

La terra tremava

sotto la mia emozione.

Poco dopo, iniziò un Amore.

C’erano le stelle.

Io sudavo.

Per l’eccitazione

e per il caldo novembrino.

Ho sempre caldo.

E poi bevo. Tanto.

E sudo.

La Terra, scivolava sotto le mie All Stars.

Rosse.

L’asfalto era il letto magro d’un fiume.

Il fiume ero io.

Il fiume eri tu.

Si fottano i poeti.

La poesia.

La poesia, quando ti viene,

la poesia

scritta

letta,

ti indurisce il cazzo.

È una leccata alla figa madre

e giovane,

zucchero del sole morto.

È tomba della nausea.

È nausea stessa,

dolce

povera

e grigio che abbaglia.

Profumo di sesso e morte,

amore indeciso. Amore indiscusso.

La poesia, quando ti viene,

è pioggia e sputo

e sangue che abbraccia.

È il non colore,

acqua fresca mattutina

e dolore.

Dolore sorpreso

a discolpar la vita.

Ti donerò la mia pancia,

il mio fiato lungo e corto.

Saprò donarti i miei denti rotti,

le mie rughe,

la mia barba dura.

Ti farò dono dei miei malgestiti capelli,

dei miei pugni chiusi,

della mia Anarchia.

Ti donerò le mie ossa rotte,

i miei sbagli,

la mia andatura lenta,

la mia voce lesa e compromessa.

Ti donerò il mio cazzo innamorato,

gli sguardi stanchi e protettivi,

la bellezza di una ricca colazione.

Ti donerò i miei pantaloni lisi.

La mia forza tutta.

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