Buch lesen: «La notte del Commendatore», Seite 13

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CAPITOLO XII

Dove si vede il mio eroe più innamorato che mai.

E poichè siete sull'immaginare, lettori umanissimi di cui sopra, immaginate ancora con che ansia, con che febbre, il nostro eroe aspettasse il domani e poi l'ora di tornare a quel benedetto angolo di via d'Angennes.

L'ora! qual'ora? La signora Szeleny non gliene aveva detto nessuna. Pensandoci bene, poteva esser quella del giorno addietro; ma il giorno addietro egli era andato per la sua presentazione alle due; ora, pensandoci bene, gli parve che alle due avrebbe fatto troppo tardi per una visita a cui era stato impegnato con tanta benevolenza. Credette perciò conveniente di anticipare un pocolino e la conseguenza di questa riflessione si fu, che alle undici del mattino il signor dottore, o baccelliere che vi piaccia chiamarlo, poneva il piede in quella stessa anticamera dove la bella ungherese gli aveva fatto il dolcissimo invito.

La donna di servizio lo introdusse nel salotto. Il tempio era deserto.

–È già uscita la signora?—domandò il giovinotto, fermandosi sulla soglia.

–Nossignore; è ancora allo specchio. Aspetti, ora vado ad avvertirla.

–Mi rincrescerebbe scomodarla. Non le dite nulla; tornerò più tardi.—

Quello scambio di parole tra lui e la donna di servizio fu udito dalla camera vicina, e il fruscio d'una veste e lo scricchiolio d'una sedia smossa avvertirono l'Ariberti che egli non aveva più il tempo di uscire dal salotto. Subito dopo, si aperse l'uscio e la signora Szeleny apparve dal vano colla sua bella testolina e mezzo il petto, chiuso in un accappatoio di cambrì; segno evidente che ella stava per l'appunto mettendosi in assetto di guerra, o di galanteria, che per una bella signora è tutt'uno.

–Aspettate, vengo subito;—diss'ella.—Abbiatevi intanto il buon giorno.

E scomparve, prima che Ariberti avesse avuto il tempo di ringraziarla.

Per altro, ebbe il tempo di fare molte altre cose, poichè la signora non venne subito, come aveva pur detto. Egli ebbe il tempo, verbigrazia, di dare una guardata a tutti i quadri e a tutte le stampe che decoravano le pareti; il tempo di esaminare, senza capirne nulla, una scenetta cinese che era tratteggiata in oro sulla lastra di quel tavolincino di lacca, che già i lettori conoscono; il tempo di sedersi tre volte e di alzarsi altrettante, infine, poichè bisogna dir tutto, il tempo di persuadersi che aveva fatto male ad ascoltare i consigli della sua impazienza, e di darsi dello stolido a tutto pasto.

Andando qua e là per la sala, gli venne finalmente veduto su d'uno scaffale, presso il pianoforte, un grosso volume dalle carte dorate, legato in pelle, con borchie e fermagli d'oro. Lo aperse e vide che era un albo, pieno zeppo di versi, la più parte ungheresi e tedeschi, poi francesi, inglesi, ed anche italiani. Ariberti non poteva leggere che questi e i francesi, che d'inglese ne masticava poco, e niente affatto di magiaro e tedesco. Egli dunque si fece a scorrere quello che intendeva, e non ebbe a lodarsene molto, perchè erano versi da dilettanti, o giù di lì.—Saranno migliori gli ungheresi e i tedeschi, di certo!—pensò egli tra sè. E torno indietro, facendo scorrere i fogli, fino alla prima pagina, per vedere chi avesse cominciato quella antologia di complimenti rimati.

–Ecco un poeta modesto!—notò l'Ariberti vedendo a pie' della pagina un nome solitario, cioè senza la compagnia del casato.—Generalmente, in questi campi chiusi della vanità ci si sottoscrive nome e cognome a tanto di lettere, sperando che la gloria si fermi e sorrida. Ma, lui, questo signor Paulus… che ragione avrà avuto, per non dir altro di sè?

Mentre il nostro giovine stava pensando al signor Paulus, capitò la signora Szeleny; ed egli fu sollecito a deporre il volume sullo scaffale.

–Vi ho fatto aspettare;—diss'ella con accento che esprimeva il suo rammarico e insieme una affettuosa sollecitudine pel giovinetto.

–Che! non mette conto parlarne;—rispose egli, stringendo la bella mano di Giselda e rammorbidendosi tutto a quel soave calore.

–Scusate, ve ne prego;—soggiunse la signora Szeleny, tenendo la sua mano in quella del giovine, ed aiutando anzi con essa la sua perorazione vittoriosa;—noi donne siamo fatte così; quando ci mettiamo allo specchio vi restiamo fino a tanto che il troppo sincero testimone, o per compiacenza, o per stanchezza, non diventi bugiardo.

–Il vostro, signora, vi avrà detto una cosa sola dal principio alla fine; siete così bella!—

Questo voleva dire Ariberti, ma non gli venne fatto di trovar subito la forma più bella in cui compendiare la sua ammirazione. E perciò si tenne il suo complimento inedito; ma il suo sguardo attonito parlava chiaramente per lui.

Ora questi eloquenti silenzi tornano in molti casi più graditi alle donne, che non le più levigate fioriture del discorso, indizio quasi sempre di padronanza d'animo e di lavoro a freddo.

Appena il nostro Ariberti potè raccapezzarsi un tantino, si scusò colla signora Szeleny di esser giunto troppo presto; cosa che ella doveva attribuire soltanto alla sua impazienza, che dava contro a tutte le norme dell'etichetta.

–No, no,—interruppe Giselda,—io sono nemica giurata delle cerimonie. Avete fatto bene a venir prima; venite sempre a quest'ora. Io sono quasi sempre sola; non ricevo altre visite che quelle di andare qualche volta a teatro, per udire gli artisti, i colleghi,—soggiunse ella sorridendo,—che non hanno più la molestia di dover pensare alla prima rappresentazione.

–Se potessi offrirmi per vostro cavaliere…—entrò a dire timidamente Ariberti.—Ma voi, signora, avete compagnia migliore della mia.

–Che dite mai? Migliore della vostra non ce ne può esser nessuna. Mi ha cortesemente accompagnato due volte il cavaliere Roberti;—proseguì ella con aria di naturalezza invidiabile;—un signore compitissimo, che si è fatto presentare dal mio impresario, ma che mi sembra un po' troppo… galante, mentre io sono d'indole più tranquilla e di gusti più semplici.

Ariberti non sapeva se dovesse rallegrarsi o dolersi di quei cenni, che la signora Szeleny gli aveva buttati là alla sfuggita.

–C'è poi un'amica…–notò egli, per non aver aria di fermarsi troppo sugli uomini.

–Ah sì, e molto bella, come avete veduto. Ditemi francamente vi piace?

–No.

–È strano;—esclamò Giselda,—tutti e due!

–Anch'io ho fatto la medesima impressione su lei? Ci ho gusto, perbacco!

–Sì, mi ha detto iersera che non le piacevate affatto. Ma non badate a queste cose…

–Vi ho detto che ci ho gusto;—ribadì il giovane, innamorato della sua frase.

–Sappiate,—proseguiva intanto la signora Szeleny, che qui c'entra un —pochino di gelosia. Mary è gelosa; non vorrebbe veder nessuno —intorno a me.

–Ma voleva ieri condurvi fuori con alcuni cavalieri di sua conoscenza.

–Sì, ma appunto perchè erano di sua conoscenza, e non amici miei personali;—rispose prontamente Giselda.—Del resto, non sono andata, e credo di non averle fatto dispiacere.—

Ariberti respirò, all'udire quell'altro cenno, buttato là a caso come il primo.

–Il guaio, in tutto questo,—diss'egli,—sarà che la signora Mary mi farà contro presso di voi.

–-No, cambierà; le diverrete simpatico.

–Oh, questo poi non m'importa nè punto, nè poco. Si tenga neutrale, e mi basta.—

La signora Szeleny lasciò cadere il discorso, che del resto era un episodio di poco rilievo nella loro conversazione, e si parlò d'altro, delle prove che sarebbero cominciate tra pochi giorni per lei, del timore che aveva di non incontrare il favore del pubblico, di lui, de' suoi studi, delle sue speranze, e qua e là, negli intervalli, d'amore, ma con riguardo, velatamente, sui generali, in terza persona, siccome è l'uso, quando si comincia a parlarne.

Questa graziosa conversazione, la più cara ad un uomo colto e mezzo innamorato, perchè essa è fior di sentimento, tutto fragranze e promesse, fu interrotta dall'arrivo di due altri… visitatori, che eravamo lì lì, col nostro eroe, per chiamare noiosi.

Va detto per altro, in omaggio al vero, che Ariberti li consacrò ambedue di gran cuore alle Deità infernali. Chi sa se la maledizione del poeta innamorato avrà poi sortito l'effetto?

Il primo di essi era un giornalista politico; l'altro un professore d'orchestra, concertista di violino a ore perse. Il giornalista, uomo di mezza età, ma lisciato, azzimato e pieno di pretensioni, tirava, come suol dirsi, la gioventù coi denti. Per sua fortuna, questi indispensabili arnesi erano ancora in essere; donde la conseguenza naturalissima che il nostro Minosse della politica sorridesse benignamente, come potrebbe sorridere un uomo che non avesse respirati mai gli acri effluvii d'antimonio in una officina tipografica, o intinto inchiostro d'un ufficio di giornale, per schizzarlo qualche volta, alla guisa delle seppie, contro amici e nemici. Sorrideva dunque benignamente, il nostro Minosse; stava impettito come un idolo indiano, e quando accennava di voler fare qualche grazietta, o di voler rispondere ad una frase laudatoria, incominciava a piegar la persona dall'imbusto; atto leggiadro che nulla più. Parlava in punta di forchetta, lento e solenne e lasciava sgocciolar le parole come gli oracoli del suo articolo di fondo. Qua e là seminava un'arguzia, ma con parsimonia, come chi sa di non averne molti da spendere. Insomma, stava in contegno, si teneva in osservazione, voleva piacere al suo uditorio, custodire gelosamente la sua prosa dai granchi, dai refusi e da tutte le altre noie dell'arte nobilissima di Panfilo Castaldi. Si sa; un errore di stampa vi può sformare, da solo, tutto quanto un articolo.

Questo bel tipo della specie letterata riuscì sommamente antipatico ad Ariberti. E doveva riuscirgli antipatico del pari il signor professore d'orchestra, concertista di violino a ore perse, con tutta la bontà che spirava dal suo viso aperto e il suo discorso senza pretensioni, perchè fu lui il primo a proporre e il più pronto a combinare per quella sera, in casa della signora Giselda, un piccolo concerto di pianoforte, violino e canto, per cui bisognava invitare anche il tenore e il baritono della compagnia e Dio sa quali altri dilettanti e buongustai, gente fatta a posta per andare in visibilio.

Era quello il mondo della diva, che involgeva Ariberti, dando una pregustazione di tutte le amarezze che gli avrebbe fatto inghiottire. Ma in fondo in fondo, ogni donna non ci ha il suo e non bisogna rassegnarsi a goderselo?

Si racconta da certi viaggiatori, che nella Cina, in quella terra famosa per le sue minuterie di mano e di pensiero, ci siano delle prigioni così gentiline all'aspetto, che ad uno dei nostri Alcidi popolani parrebbe di doverne sfondar le pareti con un pugno, e di voler anche riuscir fuori dal muro di cinta con un semplice colpo di spalla. Eppure, no; le sono così ben congegnate in forma di labirinto, con anditi, viottole, andirivieni, usci, usciolini, toppe, catenacci ed altri simiglianti gingilli, che perfino l'Ercole Farnese perderebbe la pazienza nei primi, e nei secondi poi si sgretolerebbe le dita.

Finalmente i due visitatori partirono. Ariberti per quella volta aveva fatto il provinciale, tenendo fermo il suo posto; e il giornalista politico, duro e stecchito come un granatiere di Federico II, balbettava con garbo la chiusa del suo articolo di fondo, si accommiatò prima di lui. Anche il professore concertista, che aveva bisogno di otto righe di cronaca, gli tenne dietro ossequiente, come fa il chierichetto col prete, dopo la lettura dell'ultimo evangelio e l'inchino di prammatica all'altare.

Al nostro innamorato sembrò che la signora Szeleny avesse dato una piccola rifiatata di contentezza.

–Vi hanno recato un po' di noia?—si provò egli a domandare.

–No;—rispose Giselda.—Il professor Baldi è molto bravo ed è amicissimo col direttore d'orchestra. L'avvocato Germani, poi, è, a quanto dicono, il più influente dei giornalisti di qui. Del resto, è un charmant causeur;—soggiunse la diva, con quella benevolenza che abbiamo tutti per le persone utili a noi.—Una cosa sola mi annoia, ed è questo dover ricevere ogni giorno, quasi ogni ora, quando la mente avrebbe mestieri d'un po' di riposo.

–Signora, io me ne vado;—disse Ariberti, alzandosi dalla sua scranna.

–Perchè?—dimandò ella con aria attonita.

–Ma…: per lasciarvi riposare.

–Cattivo! Non ho parlato mica per voi.

–Grazie;—ripigliò Ariberti, imitando senza avvedersene l'inchino del giornalista;—ma ad ogni modo bisognerà darvi un po' di tregua. Ho voluto rimanere dopo di quei due… signori, per dirvi che siete adorabile e che farete furore nel vostro concertino di questa sera.

–Ci verrete, s'intende?

–No, grazie, signora;—rispose il giovane con una cera da funerale.

–E perchè… se è lecito saperlo?

–Perchè… soffrirei troppo.—

La reticenza non era meditata, come il lettore potrebbe immaginarsi. Ariberti non era per anco uomo da somiglianti partiti. Voleva schiccherarle la sua brava dichiarazione e non sapeva da qual parte incominciare; l'occasione gli si era profferta ed egli l'aveva afferrata. Senonchè, pervenuto al punto di voler metter fuori il suo perchè, gli era parso di aver preso il lancio troppo presto; ma oramai, che farci? si era spiccato dalla riva e non c'era più scampo; bisognava spingersi innanzi, o affogare nel ridicolo.

–È fatta!—pensò egli tra sè, com'ebbe gettato il suo dado.

Ma pareva che la sua sorte non avesse a decidersi lì su due piedi. La signora Szeleny lo guardò un tratto, con occhio incerto, senza appuntare altrimenti la frase; e Ariberti, novellino com'era, potè credere che Giselda non lo avesse capito.

–Amico mio,—diss'ella con molta tranquillità,—come fare? son queste le noie dei poveri artisti. Bisogna fare buon viso agli altri, perchè lo facciano a noi. Ditemi dunque; dove andrete stassera?

–Io?—domandò il giovane, cascando dalle nuvole.—Al teatro Gerbino. Si recita un dramma nuovo, di cui si fanno già grandi pronostici; andrò a sentire che cos'è.

–Oh, come v'invidio!—esclamò Giselda giungendo le palme, con atto di fanciullesco rammarico.—Amo tanto il dramma! Andate dunque per voi e per me, e venite domattina a trovarmi. Io dovrò lavorare intorno a certi fronzoli donneschi, e voi mi racconterete l'intreccio del dramma.

–Vi obbedirò, signora.–

Così dicendo, il giovinetto stendeva malinconicamente la mano, per prender commiato da lei.

–Badate che ci conto;—soggiunse Giselda, accompagnandolo verso l'uscio del salotto.—Voglio vedere…

Questa sì era una reticenza meditata, un laccio teso ad Ariberti, che ci cascò bravamente.

–Che cosa?—dimandò egli, fermandosi.

–Se sarete stato attento alla scena;—rispose ella, col più zingarescamente malizioso dei suoi leggiadri sorrisi.

Il giovane notò l'allusione birichina fatta alla prima volta che si erano veduti, e gongolò.—Ella mi ha inteso poc'anzi,—pensava,—e questa allusione è la risposta. Oh donna adorabile!—

Fece intanto un inchino lì per lì, senza rispondere una parola, che invero non ne avrebbe trovato di acconce, e si ritirò, promettendo di tornare la mattina seguente.

Guardò l'orologio quando fu nelle scale. Erano le quattro. Egli era dunque stato cinque ore da lei. Sì, ma mezz'ora non contava, perchè l'aveva passata da solo, aspettando; poi, quegli altri due importuni avevano fatto una stazione di forse due ore. Vedete che gente ineducata. Come si può star due ore per fare una visita? Dunque, ricapitolando, cinque ore meno due e mezzo, fanno due e mezzo soltanto. Ma bene; e lui dunque non ci era stato più del bisogno? Sicuro; ma lui, in fin de' conti, lui… era lui.

Con questa conclusione mise in pace lo spirito. Dico male; lo chetò sul capitolo della discrezione, ma non sugli altri, che già facevano un bel numero. C'era, per esempio, quella faccenda del concerto!… Il signor giornalista politico sarebbe andato a pavoneggiarsi, a far la ruota nel salotto di Giselda, a sciorinare il suo articolo di fondo. Guardate un po'! lasciava perfino il dramma nuovo, di cui si parlava da giorni per tutta Torino! E già, si capisce, anche il cavaliere Roberti avrebbe fatto lo stesso; si sarebbe eclissato al Gerbino, per andare a bisbigliare le sue galanterie a quel terzo piano di via d'Angennes. E il tenore, e il baritono, non contenti di aversela a contendere più tardi sulla scena… Insomma, tutto dava noia, tutto insospettiva l'innamorato, e i moscerini sul naso, diventavano mosconi, cavalocchi, pipistrelli, e che so io.

Andò quella sera al Gerbino; ma era svogliato, stizzito, pieno di mal talento, e il dramma non gli piacque, quantunque fosse di uno dei primi ingegni della moderna scuola francese, e quantunque gli applausi, che fioccavano da ogni parte, mostrassero che l'uditorio si accordava a pensarla diversamente da lui: «Orazio sol contro Toscana tutta». Accusò, ci s'intende, la pessima traduzione, che doveva esser fatta dal suggeritore della compagnia, e conchiuse che il gusto de' suoi concittadini (concittadini per mo' di dire) doveva essere molto depravato, se essi tolleravano di simili offese alla lingua italiana. E pensava involontariamente al contino Candioli; e gli tornava davanti agli occhi l'immagine di Filippo Bertone, colla sua marchesana di San Ginesio, quella superba Giunone che non si era degnata di volger gli occhi su di lui, Ariberti, se non per mettersi a ridere.

Al diavolo le donne, alte e basse, dame e pedine! Quella sera il nostro baccelliere andò a finire dal Mago, non senza aver passato in via d'Angennes a digrignare i denti sotto quelle finestre, donde gli veniva tanta luce dei soliti doppieri e tanta onda delle sempre elette armonie.

La sua apparizione tra i cavalieri di Malta fu salutata da un poderissimo evviva e celebrata con parecchi bicchieri di Gattinara, accompagnati dai più matti brindisi del mondo.

CAPITOLO XIII

La pecorella smarrita ritorna all'ovile.

–Alla salute dell'estinto! di Lazzaro… semestrale, che esce fuori dal monumento fet….

–Ohibò! Questi aggettivi a tavola?

–Ma se viene dalla tomba! Non si può dunque più dire che ha pigliato il selvatico?

–Ah, così traduci il faisandé, topo cruscaiuolo.

–È proprio un morto risuscitato. Vedete che cera!

–Ariberti, dove hai lasciato il lenzuolo?

–Non gli dite nulla, poverino! Avrà fiutato un creditore per via.

–Come? ardirebbero i vili avventurarsi a quest'ora nei nostri paraggi?

–Amici, io bevo al ritorno di Ariberti, e alla distruzione dell'empia sètta.

–Meglio ancora che bere, sarebbe ammazzare il vitello grasso.

–Perchè?

–Si fa celia? È venuto il figliuol prodigo.

–Benissimo; lasciate allora che lo ammazzi suo padre.

–Ammazzarlo suo padre! Tu proponi un parricidio.

–No, parlo del vitello, bestia!

–Bella scoperta! Signori, il vitello è una bestia.

–Spiritoso! Io volevo dire soltanto che il vitello… sei tu.

–Amici,—interruppe il Priore,—le celie e le metafore continuate non sono permesse dagli statuti dell'ordine. Viva Ariberti, che finalmente ci è reso. E quantunque meriterebbe una predica…

–Una predica? La faccio io.

–Chi parla, dietro a quel boccale?

–Luciano Valerga, dei minori osservanti.

–Il Segneri della brigata!

–La gloria dell'ordine!

–Parli Valerga! Parli!—

E lì un chiasso d'inferno, un nabisso, un diavoleto. Si intende che vociando e ridendo si seguitava a trincare. Già, diceva il filosofo, non c'è cosa che bagni l'ugola come il bere.

Luciano Valerga si alzò barcollando. Era una finzione, perchè il letterato della compagnia non si ubbriacava mai, e si diceva di lui che avrebbe potuto bere impunemente tutta l'acqua delle nozze di Cana, dopo fatto il miracolo. Ma tra i tre cavalieri di Malta era la moda di parer brilli al secondo bicchiere, forse per salvare le apparenze, coprendo la debolezza di quelli tra loro che pigliavano troppo facilmente la sbornia.

Valerga adunque si levò in piedi. Avrebbe voluto salire sulla tavola, ma c'erano i fiaschi di mezzo, e i gesti dell'oratore avrebbero potuto danneggiarli; perciò il nuovo Segneri fu contento a salir sulla panca, in mezzo a due accòliti, che, stando a sedere, la tenevano salda.

–Poco reverendo Priore, poco venerabili fratelli,—incominciò Valerga con voce piena d'unzione,—ecco qua la pecorella smarrita che ritorna all'ovile. E notate che il pastore non era andato a cercarla, sicuro com'era che gliel'avrebbe ricondotta un giorno o l'altro le vecchie simpatie, l'odore del chiuso, od altra qualsivoglia ragione, sempre che il lupo non se l'avesse mangiata. Nel qual caso noi tutti saremmo andati a rintracciare le ossa nel Ghetto e avremmo dato loro onorata sepoltura, metà presso un raffinatore di zuccheri, metà ad una fabbrica di animelle per le uose dei soldati, o per le mutande dei poveri diavoli, a cui la madreperla è contesa. Ma il Ghetto, direte voi, le avrebbe lasciate così inoperose? Io mi passo di rispondervi, perchè il lagrimevole caso fortunatamente non è avvenuto e la notizia è almeno prematura. La pecorella è tra noi viva e sana, e beve con avidità, sicut cervus ad fontes aquarum. Beve, e tra poco le verrà voglia di fumare la pipa. Ma la pipa non l'ha, e qualcheduno di voi, vergini prudenti, dovrà imprestare il suo tabacco e il suo rispettivo recipiente alla smemorata. Usciamo di metafora, o signori; tanti ci si vive a disagio. Il signorino s'è messo in eleganza, ha seguito le vie di Balial, è andato a corteggiare le donne di Moab, a far l'occhio lànguido su pei teatri e per le feste da ballo. Ma che dico io l'occhio languido? L'occhio, dovevo dire, del pesce fuor d'acqua. Infatti, tu, o giovine sconsigliato, sei rimasto per tutto questo intervallo fuori del tuo proprio elemento; hai risicato di perderti; chi sa? forse hai già il baco nell'anima. Peccato! Un giovane di così belle speranze! Ti sei dimenticato del precetto di Assur Adani Pal, vulgo Sardanapalo, che lasciò scritto sulla sua tomba: «mangia, bevi, il resto è nulla»; hai dimenticato che la vita è… A proposito, chi mi versa da bere?—

La domanda dell'oratore fu prontamente esaudita. Valerga tracannò il suo bicchiere tutto d'un fiato, si lisciò i baffi e proseguì l'omelia.

–…. Che la vita, dico io, è un sogno, una allucinazione, che tutto è apparenza quaggiù, tanto che Pirrone dubitava perfino di esistere e lo avrebbe fatto crepar dalle risa il signor Cartesio colla sua goffa trovata de! «Cogito ergo sum». Siamo noi dunque così sicuri di pensare? Io per me, o signori, e, m'immagino, anche voi, ne dubito forte. Donde io potrei per avventura, con un bravo sorite, di cui vi fo grazia, dimostrarvi che non sono. E vedete qua, il damerino; egli (lo dirò con un grande autore profano) «immagini di ben seguendo false» si mise sulla via di coloro «che trattan l'ombre come cosa salda», andando dietro alle chimere, alle gorgoni, alle prime donne, alle ceraste, alle anfesibene. Badi bene scusando la rima, che non gli avvenga di incontrarci nel basilisco, orrida bestia, se crediamo agli antichi!—

–Beviamo alla salute degli antichi!

–Che il Cielo li prosperi!

–E accordi loro anche cent'anni di vita!

–Siete un branco di sciocchi;—tuonò Luciano, vedendosi interrotto sul più bello dell'orazione.—E a proposito di sciocchi, ritorno a te, giovine fuorviato, Guerrin Meschino in traccia di un cuore. Va, cerca a tua posta, e troverai… Sai tu quello che troverai? Sepolcri imbiancati o cappe di camino da imbiancare, perchè la troppa fiammata le ha insudiciate di fuliggine. Fuggi le donne, ragazzo. Heu! fuge crudeles domnas, fuge litus avarum. Sant'Agostino ha detto… Che cosa ha più detto Sant'Agostino? A raccapezzarsi, in tutta la roba che ha scritto! Insomma, sappi che ne ha detto corna, e Tertulliano, ed Eusebio, e Prudenzio e Fidenziano del pari. Origène, che le conosceva a fondo, Origène, dico…

–Sì, raccontaci un po' la burletta!

–Nossignori, non la racconterò, poichè mi avete ancora interrotto. Lascio da banda altri dottori della Chiesa e Santi Padri, dei quali potrei farvene un mazzo, come di radici, e calo ai tempi moderni. Dove hai tu preso gli esempi? Forse tra noi? Parla; ci hai tu mai veduti fallire o semplicemente cadere in tentazione? mettere un paio di guanti? un cappello a staio? lasciare il cenacolo per l'essèdra, la cantina pel salotto? il giudeo pel banchiere? la selvaggia alterezza degli straccioni per gl'inchini d'anticamera e le mancie ai lacchè, noi che ci vergogneremmo di darne ad un garzone d'osteria? Se sì, accusaci al priore eminentissimo, che fuma come un Vesuvio in aspettativa; metti mano alle prove, nomina i testi; noi non attenderemo la sentenza, ci prostreremo a' tuoi piedi, gridando: «peccavi, Domine, peccavi et malum coram te feci». Se no, se tu non puoi dire tutto questo di noi, buttati in ginocchio, a marcia vergogna de' tuoi calzoni grigi chiari da cicisbeo; anzi no, poichè ti stanno così bene attillati alla gamba, fa quattro salti mortali, o paga la multa sussidiaria di una diecina di bottiglie. Infatti fàtti in qua, e prima di ricevere da me il bacio del perdono, versami un altra volta da bere.

–Tutti i salmi finiscono in gloria e tutti i discorsi di Valerga nel vino;—disse il Priore, in mezzo alle grida e agli applausi della brigata. Ariberti, che era giunto così rannuvolato all'osteria del Mago, si rasserenò prontamente in quella chiassosa combibbia. Strano impasto di contraddizioni è l'uomo, che quanto non può sulle fisime sue la ragione in un giorno di logica a tu per tu, lo può lo stravizio in un'ora. E pel nostro eroe non fu mestieri di andare tant'oltre. Mezz'ora dopo la sua entrata all'osteria, egli aveva già affogati i suoi sopraccapi, le sue gelosie, le sue bizze colle donne, e in pari tempo e i suoi propositi di non far più vita notturna coi cavalieri di Malta.

Il Priore, che gli aveva fatto quel tiro mancino nella sua sfida a Filippo Bertone, ridiventava il grande amico di prima. La ruggine era dimenticata a tal segno, che quella notte medesima (e potrei dire anche quella mattina, perchè le ore non erano già tanto piccole), andando attorno per le vie di Torino e indugiandosi nella occupazione gradita di accompagnarsi l'un l'altro, Ariberti gli raccontò tutto, dall'a alla zeta, quel suo nuovo intrigo amoroso.

Tristano lo stette a sentire con molta attenzione, quindi gli disse laconicamente:

–-Sapevamo tutto.

–O come, se tu sei il primo a cui ne faccio parola?

–Sì, sarà come tu dici;—rispose Tristano;—ma tu sai il proverbio: amore e tosse presto si conosce. Sei stato veduto, ed anche pedinato. Ragazzo mio, non si disertano impunemente gli amici. Del resto, a provarti che si sapeva ogni cosa, sta il discorso di Luciano Valerga, che ti ha toccato per l'appunto il tasto delle prime donne.

–Ma di grazia, che male c'è?—chiese Ariberti.—Io non vi piglierò mica sul serio, quando vi mostrate così ferocemente misogini!

–Misogini! Ecco una parola difficile, che mi farò spiegare dall'amico Valerga.

–Non c'è bisogno; te la spiego io: odiatori delle donne.

–Qui poi t'inganni, pigli un granchio a secco—gridò il Priore.—Non c'è odio, nè altro: c'è solamente un più giusto concetto di quello che valgono. Le donne, mio caro, vanno trattate alla leggera, com'esse trattano noi. Un capriccio, una galanteria, una fermatina sull'uscio; non dico di no. Ma gli amici prima di tutto, e i giuramenti e i sacrifizi non s'hanno a fare che per essi, I loro diritti sono incontrastabili, perchè con essi c'è la sincerità e il disinteresse, mentre colle donne, a dir poco, c'è sempre una posta al giuoco, e l'uno vuol guadagnare, l'altro s'industria a non perdere, e tutt'e due fanno ad ingannarsi un pochino. Dopo tutto, corri la tua posta, Ariberto; ma bada a me, non fare il collegiale, se no, sei fritto. La signora è di palcoscenico; ti vedo già sulla strada delle compiacenze giornalistiche, dei sonetti, delle corone, dei mazzi con sei braccia di nastro. Tutte belle cose, per non venire a capo di nulla. Ascia in pugno, e all'arrembaggio! La tua bella, m'immagino, avrà cantato nel Pirata….

–Amico mio, tu non la conosci; essa è un angelo. Figurati, il cavalier Roberti, quell'elegante vagheggino, quell'ardito cacciatore che sai, essa non lo può patire, appunto perchè ha voluto farsi innanzi a quel modo.

–Bravo! Te lo ha detto a te. Ma poi, se davvero non lo può patire per questo, o perchè non lo ha messo pulitamente alla porta?—

L'osservazione parve giusta ad Ariberti, il quale non seppe lì per lì che rispondere all'amico, e, peggio ancora, a sè stesso. Infatti, perchè mo la signora Giselda non aveva mandato a spasso il cavaliere? Se quel perondino era audace, doveva anche essersi mostrato poco rispettoso. Il ragionamento non faceva una grinza.

Tristano frattanto incalzava.

–Or dunque, fa a modo mio; se no, la ti mena pel naso fino al dì del giudizio, o a quello della sua partenza, che torna lo stesso; e tu sei un uomo perduto. Del resto,—soggiunse il Priore con una volubilità di pensiero, che poteva anche indicare la sincerità del suo animo,—è una cosa dolce l'amare, qualunque cosa ci costi, ed anche sapendo che può andarci alla peggio. Quel consacrarsi tutto ad una bella creatura, farsi di quella fragile personcina una dea, vivere in una atmosfera tiepida di fragranze sue, in un mondo incantato di pensieri suoi, essere indifferente il sacerdote del suo tempio, o il cagnolino del suo salotto, star nel sacrario ed accogliere i responsi, o sul cuscino di seta a custodire le pantofole a ringhiare a chi le si accosta un po' troppo, è, in certi momenti della vita, una gran voluttà! Non pensare che a lei, o per lei, non vedere che lei, o cogli occhi di lei, è una fusione di esistenze, che può far sentire il piacere di vivere. Infine, che cosa è la vita, se essa non è l'amore? E che ci staremmo noi a fare quaggiù, in questa caverna di leoni, se un raggio d'amore non vi trapelasse ogni tanto?

–Come parli bene!—esclamò candidamente Ariberti.—Tu sei poeta, Tristano!

–Alle mie ore. Già, ero nato poeta, e, per far torto al proverbio, non son diventato nemmeno oratore. Lascio questo contentino a Luciano Valerga. Caro mio, tu sai che viaggiando si vive di più. Ci ho i miei ricordi, amari e dolci, di quattro parti del mondo. E dopo tutto, che cosa mi resta? Fumo e cenere. Vedi la mia pipa? Così il mio cuore. Ma tu sei giovane e la fine del salmo non ti dà noia. Potrei mostrarti la cenere che scuoto dal bocciuolo della mia pipa e l'ultima boccata di fumo che si dilegua per aria; ma tu mi risponderesti: che importa? vo' fare anch'io la mia buona fumata.—