Lo psicologo di Nazareth

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Lo psicologo di Nazareth
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© Antonio Gargallo Gil

© Editorial Santidad, 2021

TRADUZIONE DI TIZIANA DANDOLI

TITOLO ORIGINALE: EL PSICÓLOGO DE NAZARET

www.editorialsantidad.com

email: info@editorialsantidad.com

ISBN 978-84-18631-21-4

1

La brezza marina massaggiava con vigore il volto di Cristina, facendo danzare aritmicamente i suoi capelli biondi attorno a degli occhi verdi in cui la tristezza aveva attecchito a tal punto da far incuneare con forza le sue radici fin nelle profondità del suo essere. C’era solo l’abbraccio che le sue gambe fini ricevevano da due braccia avvizzite a fare da consolazione ad un corpo completamente spento e afflitto, rigorosamente esile per i digiuni involontari con cui veniva punito costantemente. Ma di fronte ad una tale mancanza di appetito, solo l’impellente necessità di mettere a tacere uno stomaco pigro può servire da allarme vivificante.

Questa era la vita di Cristina García, una splendida giornalista che a soli trent’anni era caduta nella rete dell’apatia, dello sconforto e della disperazione. Uno di quei momenti in cui uno, senza sapere né come né perché, inizia a vedere che la sua vita non ha più senso e la cosa più inquietante è che l’unico orizzonte esistente è quello del mare, che si allontana serenamente, anche se con fare sicuro, lungo i sentieri magici tracciati dal sole.

Il suono del cellulare che vibrava nella sua borsa le fece rendere conto di essersi addormentata sulla sabbia della spiaggia di Benicasim per oltre due ore, ma era l’unico posto in cui la sua mente la rispettava e filtrava parte delle migliaia di messaggi negativi che bombardavano costantemente la volta del suo pensiero.

—Pronto —disse stordita.

—Dove sei? Ti sto aspettando da più di mezz’ora… Se non avevi voglia di vedermi, potevi almeno avvisarmi.

Cristina si mise la mano sulla fronte, si morse il labbro e chiuse gli occhi in segno di fastidio. Aveva un appuntamento con la sua migliore amica, Marta, per andare a fare compere e passare insieme il sabato pomeriggio; solo che la sua mente era talmente afflitta e concentrata su di sé che iniziava a dimenticarsi degli altri.

—Oh mio Dio! Sono già le cinque e mezzo?! —esclamò guardando l’orologio—. Ti chiedo scusa… ma ho perso la cognizione del tempo e non mi ricordavo nemmeno che avessimo un appuntamento. Vengo subito da te e come ricompensa ti offro una cioccolata con i churros. Che ne dici?

—Non ti ricordi nemmeno che oggi è il mio compleanno, vero?

Cristina aggrottò la fronte e la sua mano tornò di nuovo a posarsi là dove sgorgano le idee, ma stavolta a forma di pugno, per darsi dei colpetti ripetuti che dissipassero il suo offuscamento.

—Marta, come potrei dimenticare il giorno in cui inizia la primavera? —mentì, nel tentativo di non rovinare l’unica amicizia che le era rimasta—. Ti ho comprato un regalo che ti piacerà molto. Arrivo tra quindici minuti.

Il quarto d’ora raddoppiò, dato che Cristina dovette fermarsi al primo negozio trovato per la strada e scegliere un maglione nero scollato che non riuscì nemmeno ad impacchettare con della carta da regalo. Per fortuna, la busta in cui la commessa le consegnò il maglione era abbastanza carina da far passare inosservato quel dettaglio. L’unica cosa che non passò inosservata a Marta fu vedere Cristina in abiti sportivi, dato che la sua amica era una delle persone più vanitose che conoscesse.

- Scusa il ritardo – sorrise Cristina, consegnandole direttamente il regalo per non lasciare spazio ad un rimprovero che l’avrebbe fatta sprofondare definitivamente e, dandole due baci, aggiunse: - Buon compleanno!

Marta conosceva la sua amica da quando aveva quindici anni e le bastava guardarla negli occhi per capire che qualcosa non andava nella vita di una delle persone più buone che avesse mai conosciuto, anche se si era resa conto che il suo carattere si stava inasprendo con il tempo.

A causa dell’agenda complicata che aveva, era più di un mese che non riusciva a vederla, tempo in cui i traumi subiti avevano segnato il fisico della sua amica, divenuta molto più magra e con le guance talmente scavate da destare preoccupazione e da dare l’impressione di trovarsi di fronte una persona che stia per lasciare questo mondo.

- Grazie, è bellissimo! - esclamò, confermando i suoi sospetti su Cristina, ossia che era caduta in una crisi profonda. Il nero era il colore che le piaceva di meno! Anche se le bastò un secondo sguardo al viso di Cristina per appurare che il nero era il colore che trasmetteva la sua espressione; era come un grido nella notte, silenzioso ma amaro.

Entrarono nella sua caffetteria preferita, l’unica in paese dove non si poteva fumare e dove facevano delle vere prelibatezze pur di risvegliare la dipendenza del palato e assicurarsi così la clientela.

Le due donne dalla statura simile, anche se una bionda e l’altra mora, non passarono inosservate né al cameriere, né alla clientela maschile che le accompagnò fedelmente con lo sguardo finché non si misero a sedere ad uno dei tavoli laterali; la parte della protagonista, però, la faceva Marta, una donna molto attraente dalla figura possente, oltre ad avere delle fattezze talmente simmetriche da farle rasentare la perfezione, anche se la cosa che risaltava di più di lei erano quegli occhi marroni così facilmente distinguibili per la loro dimensione.

- Che vi porto ragazze? - chiese il cliente una volta che le sue clienti si erano accomodate.

- Portaci una dozzina di churros con due tazze di cioccolata – ordinò Cristina, fedele alla promessa che aveva fatto.

Il cameriere preparò l’ordine con leggerezza ma lo servì lentamente, per poter così contemplare le sue due clienti predilette che, per di più, erano le donne più belle del locale.

Iniziarono tutte e due, all’unisono, ad inzuppare i churros nella cioccolata, lasciando che il silenzio s’impadronisse del momento e aiutasse così a dissimulare l’apparente clima disteso in cui si trovavano; anche se non camuffato a sufficienza da impedire a Marta di percepire una certa tensione, frutto dell’energia negativa che la sua amica emetteva, e che la indusse ad intervenire in modo diretto e senza tanti giri di parole.

- Mi sembri un po’ strana. Stai bene?

La domanda alleggerì Cristina, che non poteva più continuare a fingere. Aveva bisogno di parlare di tutto quello che le stava accadendo e Marta era l’unica persona di fiducia con cui potesse aprire il suo cuore. Sua madre, che viveva da sola ad Alicante, non era pronta ad ascoltare i sentimenti della figlia; suo padre, invece, continuava ad essere estraneo a qualsiasi novità, dato che non aveva neppure avuto l’opportunità di conoscerlo perché, un anno dopo la sua nascita, a quanto raccontava sua madre, le aveva abbandonate.

Cristina alzò lo sguardo e sospirò prima di intervenire.

- Che penseresti se ti dicessi che desidero morire con tutte le mie forze e che avvenga il prima possibile?

Marta lasciò cadere il churro che stava per accarezzare con le labbra. Improvvisamente l’aria smise di esistere e una specie di agonia iniziò a correrle lungo tutto il corpo. Si era dimenticata di respirare prima dello shock ricevuto da quelle parole che le si erano incuneate nel cuore come una lancia. Come poteva desiderare la morte una persona che aveva tutto? La risposta era chiara e incisiva: Cristina era caduta in una profonda depressione e il suo aspetto anoressico ne era la diretta conseguenza. All’ospedale, dove lavorava come infermiera, era stanca di vedere la vita scorrere come sulle montagne russe, dove gli alti e i bassi dello stato d’animo erano una costante, anche se molti gettavano la spugna e rimanevano ancorati all’inizio della salita, senza essere in grado di andare avanti e alzare lo sguardo. Quella malattia mentale stava creando scompiglio nella società occidentale del XXI secolo, colpendo ogni tipo di persona, dai bambini agli anziani.

—Penserei che hai urgente bisogno di aiuto—rispose Marta, tendendo la mano e afferrando quella della sua amica che tremava come un budino gelato.

—Nessuno può restituirmi la voglia di vivere —replicò—. E poi, che senso ha vedere passare i giorni e non renderti nemmeno conto che la vita intorno a te scorre? È come stare dentro una pentola a pressione che ti opprime e ti schiaccia senza lasciarti via di scampo, e dove tutto quello che ti circonda è sofferenza e angoscia. Ti assicuro che, per quanto possa cercare di esprimere a parole l’agonia che mi pervade, non saresti in grado di capirlo.

—Capisco i tuoi sentimenti perché conosco molte persone con gli stessi tuoi sintomi. So che è una situazione molto complicata per te, ma è proprio in questi momenti bui che devi fare uno sforzo per cercare di alzare la testa e vedere la luce.

—Non ne posso più —Cristina si mise le mani sulla faccia e iniziò a piangere.

—Dai, tranquilla, vedrai che tornerà tutto alla normalità.

Marta si alzò e abbracciò la sua amica nel modo più tenero che le riuscisse, dimostrandole che aveva un’amica vera su cui poteva contare per qualsiasi cosa; a maggior ragione quando era consapevole del fatto che in momenti di debolezza estrema l’essere umano poteva adottare atteggiamenti molto radicali e optare per la soluzione più terrificante: il suicidio.

—È che... mi va tutto male —diceva mestamente—. Fino a quando dovrò sopportare questo calvario?

Marta si rese conto che il trauma che le aveva causato la rottura con Ivan, una settimana prima di sposarsi, continuava ad imperversare dentro di lei, nonostante fosse già passato un anno e mezzo da quell’evento; ma era ovvio che il tempo non aveva curato le sue ferite, forse per il modo in cui si erano lasciati: Ivan l’aveva tradita durante l’addio al celibato, senza alcun pudore e alla luce del sole, con il chiaro obiettivo di far arrivare la notizia dell’infedeltà alle orecchie di quella che sarebbe diventata sua moglie, così che servisse da pretesto per rompere la relazione in modo risolutivo. Non ci furono altre parole tra i due, neppure una telefonata, né un addio, ma solo una lettera che Cristina ritirò dalla cassetta della posta tre giorni dopo lo sventurato evento, ma che non osò aprire, e neppure buttare via, per paura di leggere qualcosa che l’avrebbe crocefissa definitivamente, optando per dimenticarla in un cassetto del suo comodino con l’idea di leggerla un giorno o l’altro e chiudere finalmente una ferita ancora aperta e sanguinante. Inoltre, se fu duro il colpo di perdere quello che sarebbe dovuto diventare l’uomo con cui avrebbe condiviso il resto della sua vita, fu ancora peggiore il colpo che ricevette quando venne a sapere che aveva messo in cinta la ragazza che le aveva rubato la vita; pochi mesi dopo avrebbe perfino finito per sposarsi, mentre lei rimaneva sola e veniva divorata dalla solitudine, che tanto detestava e da cui non poteva fuggire né nascondersi perché sembrava avere dei tentacoli che cingevano tutta la sua esistenza.

 

—Immagino che sia duro per te, ma è arrivato il momento di dimenticare—disse Marta, sapendo di cosa stava parlando—. Vedrai che presto conoscerai qualcuno e diventerai la donna più felice del mondo.

Cristina tirò fuori un fazzoletto dalla tasca e si soffiò il naso, liberando così un po’ di tensione dal corpo per trasferirla alla lingua e tirarla fuori sotto forma di parole.

—Non voglio saperne proprio nulla di uomini —sbottò—. Almeno tu hai un padre che ti vuole bene e un marito che ti rispetta. Io, invece, sono stata incomprensibilmente rifiutata da mio padre e abbandonata dall’uomo che ho amato di più... per una miserabile sgualdrina! —aggiunse con rabbia—. Odio gli uomini e detesto la loro esistenza. Ah, e udite udite! Come se non bastasse, il mio capo, uomo! —volle puntualizzare—, mi sta rendendo la vita impossibile.

—Ha ripreso a farti dei brutti scherzi? —chiese Marta, tornando al suo posto.

—Sì —annuì un po’ più rilassata nell’avere l’opportunità di sfogarsi ed esprimere i suoi sentimenti—. Non avendo altro da fare, si dedica a passeggiare tra le scrivanie come se fosse un dio che tutti devono adorare. E cosa succede? Che se non gli stendi il tappeto rosso quando lo vedi e non gli sbavi dietro, poi si ritorce contro chi non lo adora. Sai bene che io non sono di quelle persone che agiscono in modo falso e ipocrita per ottenere favoritismi in cambio di...

—Quel tizio è il tipico capo cretino che per il fatto di occupare una carica dirigenziale pensa di essere superiore agli altri, quando non c’è alcun dubbio che sia un povero miserabile la cui unica soddisfazione è farsi leccare il culo perché dentro è marcio.

—Vabbè, dai, lasciamolo perdere e fregatene.

—Forse non puoi capire, perché non devi sopportare le vessazioni a cui sono soggette quelle come me che non sbavano ogni volta che la sua raccapricciante figura incrocia le nostre strade.

—E perché non te ne vai a un altro giornale?

—Sai che lavoro lì da cinque anni, se me ne vado come pago il mutuo dell’appartamento? Sapendo poi che l’occupazione è messa talmente male da non esserci lavoro per nessuno. Magari mi fossi presentata a qualche concorso per entrare nell’amministrazione locale quando ho finito l’università! —si lamentò Cristina, consapevole del fatto che oramai la politica era diventata la nuova giuria di qualsiasi esame, dove i meriti personali soccombevano a qualsiasi cognome illustre.

Fu in quel momento che un raggio di sole trafisse i vetri della finestra più vicina al loro tavolo e vi depositò una luce particolare, lasciando un barlume di speranza visibile sulle labbra di Marta.

—Come ho fatto a non pensarci prima! —esclamò con gli occhi lucidi dall’emozione.

—Che succede?

Marta aprì rapidamente la borsa e tirò fuori un bigliettino da visita color verde pistacchio.

—Non so se ti potrà servire, ma ieri ho conosciuto un tipo molto particolare all’ospedale. Quando stavo per finire il turno, mi si è avvicinato un uomo di mezza età, dalla figura slanciata e con una chioma curiosa, e mi ha dato questo bigliettino —Cristina la guardò con curiosità—. A quanto pare è uno psicologo venuto da Nazareth per farsi strada in Europa. Conoscendo lo spagnolo alla perfezione, ha deciso di venire in Spagna e il destino, a suo dire, lo ha portato fino al Mediterraneo.

—Certo, e vuoi che vada da uno sconosciuto disoccupato che non avrà nemmeno il becco d’un quattrino.

Marta rimase sconcertata di fronte alla risposta della sua amica, e non esitò a ribattere con fermezza.

—Cristina, giudichi troppo in fretta. Quell’uomo mi ha dato il suo bigliettino perché lo dessi a una persona che a mio parere ha bisogno di un aiuto psicologico e, per tua informazione —sottolineò con un tono di voce serio ma, allo stesso tempo, sereno—, mi ha detto testualmente: “Questo bigliettino è molto speciale, è l’unico che ho fatto e, naturalmente, alla persona che si presenterà nel mio studio con questo offrirò la terapia gratuitamente”.

—Scusami, sono un po’ nervosa —si volle giustificare nel vedere che era riuscita a far innervosire la sua cara amica.

—È vero che in un primo momento mi è sembrato un po’ strano, come a te, che uno psicologo passasse appositamente dall’ospedale con la volontà di regalare una terapia. Ma non è la cosa che mi ha sorpreso di più —Marta ammutolì di colpo, come se fosse entrata in trance evocando una situazione passata.

—Cosa ti ha sorpreso? —chiese Cristina incuriosita, nel vedere che la sua amica si era ammutolita.

Dopo essersi fatta scappare un ghigno sulle labbra proseguì, come se il silenzio non fosse esistito affatto.

—Il suo sguardo... —Un altro lungo silenzio tornò a sprofondare Marta nei suoi pensieri, anche se questa volta la sua reazione non si fece attendere—. I suoi occhi emanavano una pace indescrivibile: non avevo mai visto uno sguardo così limpido e benevolo! Non so, mi ha trasmesso delle vibrazioni molto buone, e… che vuoi che ti dica? Io tendo a credere che le cose non accadano per caso. E poi, il solo fatto che voglia usare la tecnica pubblicitaria più umile del pianeta, ma la più efficace, il passaparola, è perché lavora davvero molto bene —anche se la sua interlocutrice rimaneva in silenzio, non era difficile notare un atteggiamento diverso da quello che aveva mostrato fino a quel momento: finalmente stava in ascolto, senza la chiusura che la frastornava—. Cristina, te lo dico con il cuore in mano, hai bisogno di aiuto e non ti costa nulla andare. Provaci, e se non ti piace non ci torni più.

Di fronte al buon consiglio che stava ricevendo, Cristina non poté fare altro che guardare la sua amica e acconsentire con lo sguardo.

«Forse ha ragione e ho bisogno di aiuto... Ci andrò, e se non mi convince, non ci torno e basta», pensò Cristina mentre sfiorava con la punta delle dita un bigliettino austero quanto l’arrivo di qualsiasi immigrato senza denaro, fiducioso nella provvidenza e nell’aiuto compassionevole di qualche essere umano che si impietosisca e offra loro un piatto caldo o, nel migliore dei casi, un lavoro con cui potersi sostenere e garantire un futuro dignitoso.

—D’accordo —rispose con un’impercettibile ghigno di entusiasmo; anche se sufficiente perché un barlume di speranza raggiungesse il suo cuore, così avvilito e represso da una mente ormai sprovvista di raziocinio per fare largo al disincanto, all’amarezza, alla tristezza e all’ansia, che avevano vinto facilmente la battaglia contro l’allegria, la pace e l’armonia, rimaste ormai moribonde e impotenti davanti all’opprimente dominio dell’irrazionalità.

L’infermiera si limitò a sorridere, di modo che Cristina non provasse alcuna pressione di fronte a quella decisione, fattore di cui approfittò per dare una svolta alla conversazione e passare a temi più incandescenti e meno trascendentali, cosa che Cristina gradì perché, per qualche momento, poté mettere da parte il suo io addolorato e godere della compagnia di un’amica a cui voleva bene come a una sorella.

Prolungarono il loro incontro finché il sole non mandò i primi segnali di volersi andare a coricare, scandendo un malinconico saluto da parte di Cristina, la quale, con suo grande dispiacere, doveva tornare a casa e affrontare la sua compagna d’appartamento: la temuta ed esasperante solitudine.

Lungo la strada, la perseguitava una miriade di domande senza risposta: perché la vita era così dura con lei? Non si meritava forse una tregua? Perché il destino non era in grado di unirsi a lei e ballare al ritmo della felicità? Era forse stata privata di qualsiasi tipo di delizia e doveva ballare con la tristezza per il resto della sua vita? “Quanta ingiustizia!”, pensava mentre i suoi passi spaiati la portavano fino a quello che considerava più un cimitero che una casa.

Il suono della serratura mentre apriva la porta di casa le risuonò, paradossalmente, come il catenaccio che mettono ai prigionieri quando devono necessariamente andare ad occupare le loro celle prima di coricarsi. Voleva dire oltrepassare la soglia della porta e ritrovare una nuvola carica di malinconia, come se machiavellicamente la stesse aspettando per posarsi sulla sua testa, agendo come un vespaio di pensieri distruttivi che smettevano parzialmente di ronzare solo quando accendeva il televisore e si lasciava inghiottire dalla poltrona, mentre mangiava svogliatamente un panino, con le prime cose che trovava nel suo desolato frigorifero.

Tra un boccone e l’altro la sua mente captava inesorabilmente le notizie deprimenti che qualsiasi canale televisivo proponesse allo spettatore: morti, corruzione, disastri naturali, furti, incidenti mortali e una serie infinita di notizie capaci di minare lo stato d’animo di chiunque; erano esattamente le stesse cose che doveva scrivere quotidianamente nel suo giornale, sebbene fosse inconsapevole di trovarsi di fronte ad un apparecchio che la classe politica manipolava secondo il proprio libero arbitrio, in modo da creare cervelli clonati e pieni di contraddizioni per tenere a bada la società con un messaggio sottile ma subliminale: «Il mondo non funziona, per fortuna tu sei una di quelle persone avventurose su cui può contare questa giornata; quindi non ti preoccupare, rimani docile agli ordini dei fedeli governanti che vegliano onestamente sulla tua sicurezza e continua a lavorare senza fiatare, che questo ti permetterà di godere degli acquisti necessari che devi fare ogni giorno per poter appartenere al mondo degli eletti, un mondo retto dall’unico dio che ti può dare la felicità: il dio Denaro». E per chiudere il notiziario, niente di più subliminale della sezione sportiva, completamente politicizzata e di carattere monotematico, il calcio; momento adatto perché i suoi detrattori, come Cristina, ne approfittino per andare al bagno, lavarsi i denti, mettersi il pigiama e prepararsi per vedere un film romantico, dove la realtà sarebbe divenuta finzione e, inconsciamente, la mente l’avrebbe trasformata in un sogno idilliaco di quello che potrebbe essere ma non è; un cocktail perfetto per andare a letto con la frustrazione che implicava il fatto di non ottenere quello che apparentemente altri ottenevano e concludere così la giornata con una litania di lamentele, trasformatasi in un rituale di pensieri punitivi con cui Cristina si congedava ogni notte: «Maledetta! E perché trovano tutti l’amore della loro vita e io no? Sono così spregevole che non c’è nessuno sulla Terra che mi noti? Perché cavolo deve succedere a me? Ma che merda questa vita che si accanisce contro di me e fa in modo che mi vada tutto male! Potrò mai essere felice un giorno? E come se non bastasse, domani si torna al chiodo per vedere il «Gufo» —soprannome che usavano lei e la sua collega quando si riferivano ad Alberto Vallado, il suo capo redazione, perché le controllava di continuo—. È un tipo insopportabile, per non dire un vero figlio di puttana. Ma che si crederà quello là? Pensa forse che siamo le sue schiave e che tutti devono girare intorno al suo sedere puzzolente? E per suo diletto, i quattro coglioni di turno gli fanno le moine e gli stendono il tappeto rosso ogni volta che saluta quelli che crede essere i suoi plebei: che stronzi! Ma non si rendono conto che è un falso, un presuntuoso e un prepotente capace di esasperare chiunque? Come osa quel buono a nulla dire a me che, siccome lui è il capo, devo fare quello che dice altrimenti mi licenzia? Pensa forse di essere superiore perché ricopre un posto insignificante che, oltretutto, occupa solo per una raccomandazione del paparino? Ma domani si renderà conto quell’uccellaccio del malaugurio...».

 

—Non hai il coraggio! —esclamò Concha, vedendo che aveva già il telefono in mano.

—Cosa scommetti? —la sfidò Cristina con uno sguardo e un sorriso machiavellico.

Concha si mise a ridere nel vedere che la sua collega non esitava a fare ciò che stava progettando da tempo.

—Vai, avvicinati alla bacheca —luogo da cui si poteva vedere l’ufficio di Alberto— e avvisami se viene il Gufo, non vorrei che, oltre a girarsi i pollici e a passare la giornata a vegetare, riesca pure a schivarsela —aggiunse, mentre componeva decisa il numero di telefono.

Concha eseguì gli ordini della collega, mentre guardava incredula le minacce che aveva sentito fare tante volte e che, finalmente, si avveravano.

—Buongiorno, vorrei informarla che in via Lepanto, al numero cinque, c’è una BMW targata 1387 MLZ parcheggiata sul marciapiede, che interferisce col passaggio dei pedoni.

Cristina alzò il pugno in segno di vittoria, gesto che passò inosservato agli altri sei colleghi che si trovavano nella sala, ma non a Concha, consapevole del fatto che il piano era stato eseguito alla perfezione.

La camminata rapida di Concha indicò a Cristina che il nemico stava facendo rotta verso di loro. Rimise con foga il telefono in borsa e si mise di fronte al computer, temendo che se non avesse avuto le mani sulla tastiera le sarebbe toccato il solito rimprovero a cui non si era ancora abituata.

—Forza, pigroni, tra un’ora voglio le vostre notizie sulla mia scrivania —incalzò Alberto, aspettandosi i sorrisi dei suoi leccapiedi mentre faceva il solito giretto.

«Guardalo lì, con la sua cravatta medievale e la sua camicia da ragazzino, credendosi Tom Cruise, quando è solo un povero vecchio porco. Io lo metterei dentro al water di casa sua e tirerei lo sciacquone sperando di avere la fortuna che si formi un bel mulinello e lo inghiottisca nelle tubature, facendolo finire dove si merita: nelle fogne! Guardalo lì, con quei capelli bianchi e così tante rughe da sembrare una fisarmonica, credendosi lo sciupafemmine dell’isola dei famosi, quando non è altro che un mascalzone che nemmeno quella santa di sua moglie riesce a sopportarlo, lo mette a mangiare da solo in un angolo della cucina perché non lo sopporta. Eccolo lì, in attesa che gli diano tutti una pacca sulla spalla. “Buongiorno capo, che bella cravatta ha oggi”, gli dice la ruffiana di turno, sperando di ricevere un aumento di stipendio; “Buongiorno, capo, le porto subito uno di quegli articoli che le piacciono tanto”, gli dice quel coglione di Jesús, celando la sua incompetenza con parole lusinghiere —pensava Cristina, completamente indignata—. Stavolta, appena mi fa una battutaccia, non me ne rimango in silenzio».

La sala era composta da un lungo corridoio ai cui lati si trovavano le scrivanie degli impiegati, racchiuse da un vetro di media altezza che conferiva una sorta di indipendenza rispetto agli altri lavoratori; ma non era sufficiente nel caso qualcuno si aggirasse in posizione eretta a controllare il personale.

Proprio nel momento esatto in cui Alberto si accingeva a passare di fronte alla scrivania di Cristina e a rivolgerle la parola, tuonò con veemenza la voce di Jesús.

—Capo, quel BMV che sta caricando il carro attrezzi non è il suo?

Alberto si precipitò alla finestra con un’espressione di sorpresa ed una certa incredulità, perché per quattro anni aveva parcheggiato sempre nello stesso posto e fino ad allora non aveva mai ricevuto neppure un richiamo verbale.

—Porca puttana, che cazzo stanno facendo? —gridò indignato nel verificare che si trattava della sua macchina.

Con un’agilità impropria per un uomo sedentario e giunto quasi alla fine della sua vita lavorativa, Alberto uscì dall’ufficio correndo alla velocità del vento.

Concha e Cristina si scambiarono uno sguardo complice, uno di quegli sguardi che dimostrano una soddisfazione personale propria dell’allegria non esteriorizzata.

«Mamma mia, che efficienza! —pensò Cristina di fronte alla rapidità con cui era intervenuta la polizia locale—. Quando si verifica un furto ci mettono ore ad arrivare, ma quando si tratta di fare delle multe per rimediarci un po’ di soldi è questione di secondi!».

Tutti gli impiegati si precipitarono alla vetrata per non perdersi lo spettacolo; la soffiata, però, servì ad Alberto per arrivare in tempo ed evitare che il carro attrezzi si portasse via la macchina in cambio della temuta ricetta della polizia, che comportava il pagamento di una multa per lui e la ricompensa di cinque anni di umiliazione per sé.

Alberto giunse tronfio nella sala, ignaro del fatto che la colpevole di quel tiro mancino fosse proprio la sua dipendente, e, con espressione compiaciuta, aggiunse:

—Niente panico! Una piccola multa che ovviamente non dovrò nemmeno pagare —dopo una breve pausa esclamò—: A qualcosa serviranno pure i cognati!

Il ghigno di soddisfazione disegnato dalle labbra di Cristina scomparve dopo aver ascoltato le parole di Alberto, e, muovendo la testa da un lato all’altro, guardò la sua collega, che con lo sguardo esprimeva la stessa indignazione. Fu irritante per entrambe sapere che il loro piano era crollato perché il marito della sorella del suddetto era un assessore comunale in grado di fornire, senza alcun inconveniente, l’indulto al trasgressore.

«È chiaro che non sono solo i re a vivere di favori. Viva la democrazia!».

All’ora del pranzo, accanto alla macchina del caffè che era nella stanza attigua, approfittando del fatto che gli altri colleghi erano usciti a fumare, Cristina e Concha si misero a commentare, come per una partita di calcio, le migliori carognate della mattinata.

—Hai visto la faccia del vecchio, quando il guastafeste gli ha detto della macchina? —diceva una.

—Puah! Stavo morendo dal ridere —rispondeva l’altra.

—Dato che il Gufo è un gradasso di quelli che te li raccomando, sono convinta che domani parcheggerà di nuovo nello stesso posto. Stavolta, però, fammi un favore, mettiti bella scollata e vai a chiedere qualcosa allo spione di turno che si mette sempre in mezzo, perché, se riusciamo a fare in modo che il carro attrezzi porti a termine il suo lavoro, non ci sarà santo che gli levi la multa.

—Oltre alla noia che comporta andare al deposito a riprendere la macchina.

—E all’incazzatura che ti rimane addosso.

Le due scoppiarono a ridere al solo pensiero del piacere che avrebbero provato vedendo il loro capo innervosito fino al midollo quando avrebbe trovato un triangolo giallo ad indicargli la nuova ubicazione della sua macchina.

In tante occasioni avevano parlato di quanto fosse ingiusto lavorare con un essere che si credeva superiore al resto dei mortali. Le irritava il fatto che il loro capo concepisse come un suo dovere parcheggiare dove gli fosse più comodo, senza pensare al disturbo che poteva arrecare ai passanti della zona, oltre al disagio e al pericolo a cui esponeva con la sua imprudenza le persone sulla sedia a rotelle, costrette ad invadere la strada nel vedere interrotto il proprio percorso.

—A proposito, credi che ingaggeranno Charo per il campionato NBA? —disse Cristina—. «Capo, che bella cravatta» —ripeteva sarcastica, e con voce stridula, la frase che poco prima aveva pronunciato quella che ritenevano una vera manipolatrice, capace di allisciare il pelo perfino da addormentata—. Secondo me sta cercando di arruffianarselo per bene in modo che quando andrà in pensione ceda il suo posto a lei.