Tuareg

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Aus der Reihe: Novelas
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Tuareg

Alberto Vázquez–Figueroa


Categoria: Romanzi | Collezione: Romanzi d’avventura


Titolo originale: Tuareg


Prima edizione: 1980

Ristampa aggiornata e ampliata: giugno 2021

© 2020 Editorial Kolima, Madrid

www.editorialkolima.com


Autore: Alberto Vázquez-Figueroa

Direzione editoriale: Marta Prieto Asirón

Copertina: Silvia Vázquez-Figueroa

Layout di copertina: Sergio Santos Palmero

Layout: Carolina Hernández Alarcón

ISBN: 978-84-18811-41-8

Quest’opera non può essere riprodotta in tutto o in parte, incorporata in un sistema informatico, trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo, sia esso elettronico, meccanico, di fotocopiatura, di registrazione o altro, affittata o altrimenti trasferita senza il previo permesso scritto dei titolari del copyright.

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A mio padre

«ALLAH è grande. Sia lodato.

«Molto tempo fa, quando ero giovane e le gambe mi portavano per lunghe giornate sulla spiaggia e sulle rocce senza fatica, mi dissero che mio fratello minore si era ammalato e, anche se tre giorni di cammino separavano la mia jaima dalla sua, potè più l’amore che avevo per lui che la pigrizia e intrapresi la marcia senza timore poiché, come ho detto, ero giovane e forte e nulla spaventava il mio animo.

«La notte del secondo giorno incontrai una distesa di alte dune, a mezza giornata di marcia dalla tomba del santone Omar Ibrahim, ne scalai una per avvistare un luogo abitato dove chiedere ospitalità, ma non vidi niente e decisi allora di fermarmi lì e di passare la notte al riparo dal vento.

«La luna sarebbe dovuta essere molto alta, se per mia disgrazia Allah non avesse deciso che quella doveva essere una notte senza luna, quando mi svegliò un grido così inumano che mi lasciò senza fiato e mi fece rannicchiare dalla paura.

«Mi trovavo così quando di nuovo arrivò quello spaventoso urlo, a cui seguirono gemiti e lamenti così numerosi che pensai che un’anima sofferente dell’inferno riuscisse ad attraversare la terra con le sue grida.

«Improvvisamente sentii che scavavano nella sabbia e poco dopo quel rumore scomparve per riapparire più in là e lo avvertii successivamente in cinque o sei luoghi diversi, mentre continuavano i laceranti lamenti e io ero rattrappito e tremante per la paura.

«Non finirono lì le mie tribolazioni, perché subito sentii un respiro affannoso, mi gettarono manciate di sabbia sulla faccia e che i miei antenati mi perdonino se confesso che provai una paura così atroce che feci un salto e cominciai a correre come se lo stesso Satana, il demonio lapidato, mi inseguisse. E le mie gambe non si fermarono fino a che il sole non mi illuminò e neanche il più piccolo segno delle grandi dune rimase alle mie spalle.

«Arrivai dunque alla casa di mio fratello e volle Allah che fosse molto migliorato, così che potè ascoltare la storia della mia notte di terrore e mentre la raccontavo accanto al fuoco, come adesso ve la sto raccontando, un vicino mi diede la spiegazione di ciò che mi era accaduto e mi narrò ciò che suo padre gli aveva tramandato e disse così :

«‘Allah è grande. Sia lodato.

«‘Molti anni fa due potenti famiglie, gli Zayed e gli Atman, si odiavano talmente e il sangue degli uni e degli altri era stato versato in così tante occasioni che i loro abiti e perfino il loro bestiame avrebbe potuto essere tinto di rosso per tutta la vita. E poiché l’ultimo a essere ucciso era stato un giovane Atman, questi erano ansiosi di vendetta.

«‘Tra le dune dove hai dormito, non lontano dalla tomba del santone Omar Ibrahfm, era accampata una jaima degli Zayed, di cui però tutti gli uomini erano morti ed erano rimasti solo una donna e suo figlio che vivevano tranquilli, poiché, anche per quelle famiglie che tanto si odiavano, attaccare una donna era ancora qualcosa di indegno.

«‘Ma una notte giunsero i nemici e dopo aver legato le mani alla povera donna che gemeva e piangeva portarono via il piccolo con l’intenzione di sotterrarlo vivo in una delle dune.

«‘I nodi erano ben stretti, ma è risaputo che nulla è più forte dell’amore materno e la donna riuscì a scioglierli, ma quando uscì erano già andati via tutti e non distinse altro che un infinito numero di alte dune per cui si lanciò dall’una all’altra scavando qui e là, gemendo e chiamando, sapendo che suo figlio stava morendo soffocato e lei era l’unica che poteva salvarlo.

«‘E così la sorprese l’alba.

«‘E così continuò per un giorno, un altro e un altro perché la misericordia di Allah le aveva concesso il bene della pazzia in modo che soffrisse di meno non comprendendo quanta malvagità esiste negli uomini.

«‘Non si è più saputo niente di quella sventurata e raccontano che di notte il suo spirito vaghi per le dune non lontano dalla tomba del santone Omar Ibrahfm e continui le ricerche e i lamenti, e certamente deve essere così perché tu che hai dormito lì senza saperlo ti sei incontrato con lei.

«‘Lodato sia Allah, il misericordioso, che ti permise di uscirne bene e di continuare il tuo viaggio e di riunirti qui, con noi, accanto al fuoco.’

«‘Lodato sia’.»

Concludendo il suo racconto, l’anziano sospirò profondamente e rivolgendosi ai più giovani, quelli che ascoltavano per la prima volta l’antica storia, disse:

«L’odio e le lotte tra famiglie non conducono a niente altro che alla paura, alla pazzia e alla morte ed è certo che durante i molti anni che ho combattuto con i miei contro i nostri eterni nemici del Nord, gli Ibn-Aziz, non ho visto niente di buono che le giustificasse, perché le rapine degli uni si pagano con le rapine degli altri e le morti di ciascuna banda nom hanno prezzo, ma come una catena vanno trascinandosi nuovi morti e gli accampamenti rimangono privi di forti braccia e i figli crescono senza la voce del padre».

Per alcuni minuti nessuno parlò, poiché era necessario meditare sugli insegnamenti che conteneva la storia che l’anziano Suilem finiva di raccontare e non sarebbe stato giusto dimenticarli immediatamente, per questo non valeva la pena infastidire un uomo tanto venerabile che perdeva ore di sonno e faticava per loro.

Infine Gacel, che aveva ascoltato dozzine di volte quella vecchia storia, indicò con un gesto della mano che era ora per tutti di andare a dormire e si allontanò da solo, come ogni notte, a verificare che il bestiame fosse stato riunito, che gli schiavi avessero eseguito le sue istruzioni, che la sua famiglia riposasse in pace e che l’ordine regnasse nel suo piccolo impero costituito da quattro tende fatte con pelle di cammello, mezza dozzina di sheribas di canne intrecciate, un pozzo, nove palme e un branco di capre e di cammelli.

Poi, sempre come ogni notte, salì piano verso l’alta duna che proteggeva l’accampamento dai venti dell’Est e contemplò alla luce della luna i resti di quell’impero: un’infinita estensione di deserto, giorni e giorni di marcia attraverso sabbia, rocce, montagne e pietraie dove lui, Gacel Sayah, regnava con dominio assoluto, poiché era l’unico inmouchar stabilitosi lì ed era anche padrone dell’unico pozzo conosciuto.

Gli piaceva sedersi su quella cima, e ringraziare Allah per le mille benedizioni che continuamente gli concedeva: la bella famiglia che gli aveva dato, la salute dei suoi schiavi, il buono stato degli animali, i frutti delle sue palme e il supremo bene di averlo fatto nascere nobile tra i nobili del potente popolo del Kel-Talgimus, il «Popolo del Velo», gli indomabili imohag, coloro che il resto dei mortali conosceva con il nome di tuareg.

Non c’era niente a sud, a est, a nord o a ovest, niente che limitasse l’influenza di Gacel il Cacciatore, che si era allontanato a poco a poco dai centri abitati per stabilirsi nel più remoto angolo dei deserti, lì dove poteva sentirsi completamente solo con i suoi animali selvaggi: addax fuggitivi si appostavano per giorni nella pianura, mufloni delle alte montagne isolate tra grandi mari di sabbia, asini selvatici, cinghiali, gazzelle e infiniti stormi di uccelli migratori.

Gacel era fuggito dall’avanzata della civilizzazione, dall’influenza degli invasori e dallo sterminio indiscriminato degli animali del deserto, ed era risaputo, in tutta l’estensione del Sahara, che l’ospitalità di Gacel Sayah non aveva pari da Timbuctù alle sponde del Nilo, anche se la sua furia era solita abbattersi sulle carovane di schiavi e sui cacciatori pazzi che osavano addentrarsi nel suo territorio.

«Mio padre mi ha insegnato», diceva, «a non uccidere più di una gazzella anche se il branco fugge e ci vogliono tre giorni per raggiungerla. Io perdo tre giorni di marcia, ma nessuno restituisce la vita a una gazzella morta inutilmente.»

Gacel fu testimone di come i francesi sterminarono le antilopi del Nord, i mufloni della maggior parte del l’Atlas, i meravigliosi addax della hamada dall’altra parte della grande seika che era stata per migliaia di anni dietro il grande fiume e per quello aveva scelto quell’angolo delle pianure pietrose, dalle sabbie infinite e dalle montagne pungenti, a quattordici giorni di marcia da El-Akab, perché non lo attirava altro che la più inospitale delle terre del più inospitale dei deserti.

 

Erano rimasti definitivamente alle spalle i tempi gloriosi in cui i tuareg assaltavano carovane e attaccavano urlando i militari francesi ed erano passati anche i giorni delle rapine, della lotta e della morte in cui correvano come il vento per la pianura, orgogliosi del loro nome di banditi del deserto e di padroni delle sabbie del Sahara dal sud di Atlas ai confini del Chad. Furono anche dimenticate le guerre fratricide e le scorrerie di cui gli anziani conservavano un grande e lontano ricordo, e quelli erano gli anni del tramonto della razza imohag, perché qualcuno dei suoi più valorosi guerrieri guidava camion per un padrone francese, militava nell’esercito regolare, o vendeva stoffe e sandali a turisti dalle sgargianti camicie.

Il giorno in cui suo cugino Suleiman abbandonò il deserto per vivere nella città, deciso a trasportare mattoni ora dopo ora, sporco di cemento e di calce in cambio di denaro, Gacel comprese che doveva fuggire e diventare l’ultimo dei tuareg solitari.

Ed era lì, e con lui la sua famiglia, e ringraziava Allah mille e una volta, perché in tutti quegli anni, tanti che ne aveva addirittura perso il conto, neanche una sola notte, da solo in cima a una duna, si era pentito della decisione presa.

Il mondo aveva vissuto in quel tempo strani avvenimenti di cui gli arrivavano rumori molto confusi da parte di sporadici viaggiatori ed era contento di non averli visti da vicino, perché le vecchie notizie parlavano di morte e guerra, di odio e fame, di grandi cambiamenti sempre più veloci; cambiamenti di cui nessuno sembrava soddisfatto e che non prospettavano niente di buono per nessuno.

Una notte, mentre era seduto a contemplare le stelle che tante volte lo avevano guidato per le strade del deserto, ne scoprì una nuova, folgorante e veloce, che solcava il cielo, decisa e costante, senza il volo impazzito e fugace

delle stelle erranti che cadevano improvvisamente nel nulla. Gli si gelò per la prima volta il sangue per la paura, poiché niente esisteva nella sua memoria, né nella memoria dei suoi antenati, nelle tradizioni o leggende che parlasse di una stella così, che ritornava seguendo la stessa direzione notte dopo notte, alla quale se ne unirono negli anni successivi molte altre fino a formare un’autentica muta di cani che veniva a turbare la pace dei cieli.

Che significato avessero, non riuscì mai a saperlo, né lui, né l’anziano Suflem, padre di quasi tutti i suoi schiavi, tanto vecchio che suo nonno lo aveva comprato, già uomo, nel Senegai.

«Le stelle non hanno mai corso come pazze nei cieli, padrone», disse. «Mai, e questo può significare che la fine dei secoli si avvicina.»

Domandò a un viaggiatore che non seppe rispondergli. Domandò a un altro che rispose dubbioso:

«Credo che sia una cosa dei francesi». Ma non volle ammetterlo, perché anche se aveva sentito molto parlare dei progressi dei francesi, non li credeva tanto pazzi da perdere tempo a riempire il cielo di altre stelle.

Deve trattarsi di un segnale divino, si disse, il modo con cui Allah vuole indicarci qualcosa, ma... che cosa?

Cercò di trovare una risposta nel Corano, ma il Corano non faceva menzione di stelle fugaci di matematica precisione, e con il tempo si abituò a loro, ma ciò non voleva dire che le avesse dimenticate.

Nella limpida aria del deserto, nell’oscurità di una terra senza una luce nel raggio di centinaia di chilometri, si aveva l’impressione che le stelle discendessero fino quasi a strisciare sulla sabbia e Gacel allungava a volte la mano come se realmente potesse toccare con la punta delle dita le luci intermittenti.

Lasciava trascorrere così molto tempo, da solo con i

suoi pensieri, poi scendeva senza fretta per dare un’ultima occhiata al bestiame e all’accampamento e per ritirarsi a riposare dopo aver controllato che né iene affamate né astuti sciacalli minacciassero il suo piccolo mondo.

Davanti all’entrata della sua tenda, la più grande e confortevole dell’accampamento, si fermava alcuni istanti ad ascoltare. Se il vento non aveva cominciato ancora a gemere, il silenzio arrivava a essere così denso che faceva perfino male alle orecchie.

Gacel amava quel silenzio.

Ogni mattina l’anziano Suflem, o uno dei suoi nipoti, sellava il dromedario prediletto dal suo padrone, Vin mouchar Gacel, e lo lasciava davanti all’entrata della tenda.

Ogni mattina, il targui prendeva il suo fucile, saliva sulla schiena del suo bianco mehari dalle lunghe zampe e si allontanava verso uno dei quattro punti cardinali in cerca di selvaggina.

Gacel amava il suo dromedario come un uomo del deserto è capace di amare un animale dal quale continuamente dipende la sua vita e di nascosto, quando nessuno poteva sentirlo, gli parlava come se potesse capirlo, chiamandolo R’Orab, il corvo, burlandosi del suo bianchissimo pelo che si confondeva continuamente con la sabbia facendolo diventare invisibile quando aveva un’alta duna alle spalle.

Non esisteva mehari più veloce né resistente da quel lato del Tamanrasset e un ricco commerciante, padrone di una carovana di più di trecento animali, gli offrì di barattarlo con cinque dei suoi a scelta, ma lui non accettò. Gacel sapeva che se un giorno, per qualunque ragio ne, gli fosse successo qualcosa durante una delle sue solitarie scorribande, R’Orab sarebbe stato Punico cammello al mondo capace di riportarlo all’accampamento nella più buia delle notti.

Spesso si addormentava, cullato dal dondolio e vinto dalla stanchezza, e più di una volta la sua famiglia lo a veva trovato così all’entrata della sua jaima e lo aveva messo a letto.

I francesi assicuravano che i dromedari erano animali stupidi, crudeli e vendicativi che ubbidivano soltanto alle grida e alle botte, ma un autentico imohag sapeva che un buon dromedario, specialmente un mehari puro sangue guidato e ammaestrato, poteva diventare intelligente e fedele come un cane e comunque mille volte più utile della sabbia e del vento.

I francesi trattavano tutti i dromedari nello stesso modo durante tutti i periodi dell’anno, senza capire che nei mesi in cui erano in calore le bestie diventavano irritabili e pericolose, specialmente se il caldo aumentava con i venti dell’Est; per questo i francesi non furono mai bravi cavalieri del deserto e non riuscirono mai a dominare i tuareg che nelle lotte e nelle incursioni li sconfìssero sempre, nonostante il loro maggior numero e il loro miglior armamento.

In seguito però i francesi divennero padroni delle oasi e dei pozzi e fortificarono i pochi punti d’acqua della pianura con i cannoni e le mitragliatrici e i cavalieri liberi e indomabili, i Figli del Vento, dovettero arrendersi a ciò che, dall’inizio dei secoli, era stato il loro nemico: la sete.

Ma i francesi non erano orgogliosi di aver vinto il Popolo del Velo perché, in realtà, non riuscirono a sconfìggerlo in campo aperto; né i loro negri senegalesi, né i loro camion e neppure i loro carri armati furono utili

in un deserto dominato da un estremo all’altro dai tuareg e dai loro mehari.

I tuareg erano pochi e dispersi mentre i soldati giungevano dalle città o dalle colonie come nuvole di cavallette e arrivò un giorno in cui né un cammello né un uomo, né una donna, né un bambino potè bere nel Sahara senza il permesso della Francia.

Quel giorno gli imohag, stanchi di veder morire le proprie famiglie, deposero le armi.

Da quel momento furono un popolo condannato all’oblio; una «nazione» che non aveva più ragione di e sistere, dato che le ragioni di quella esistenza, la guerra e la libertà, erano scomparse.

Rimanevano ancora famiglie disperse, come quella di Gacel, perdute ai confini del deserto, ma non erano più composte da guerrieri orgogliosi e alteri, bensì da uomini che continuavano a ribellarsi interiormente, sapendo con certezza che non sarebbero mai tornati a essere il temibile Popolo del Velo, della Spada o della Lancia.

Tuttavia gli imohag continuavano a essere i padroni del deserto dalla hamada all’erg o alle alte montagne battute dal vento, poiché il vero deserto non erano i pozzi lì disseminati, ma le migliaia di chilometri quadrati che lo circondavano e lontano dall’acqua non esistevano francesi o àscari senegalesi e neanche i beduini, perché questi ultimi, anche loro conoscitori delle sabbie e delle pietraie, transitavano solo per le piste, da pozzo a pozzo, da villaggio a villaggio, timorosi delle grandi estensioni sconosciute.

Solamente i tuareg, e specialmente i tuareg solitari, affrontavano senza paura la «terra vuota», quella che non era altro che una macchia bianca sulle mappe, dove la temperatura faceva bollire il sangue a mezzogiorno, dove non cresceva neanche il più legnoso degli arbusti e

che perfino gli uccelli migratori schivavano, con i loro voli a centinaia di metri di altitudine.

Gacel aveva attraversato due volte nella sua vita una di quelle macchie di terra vuota. La prima volta fu una sfida, quando volle dimostrare che era un degno discendente del leggendario Turki, e la seconda, ormai uomo, fu quando volle dimostrare a se stesso che continuava a essere degno di quel Gacel capace di rischiare la vita in gioventù.

L’inferno del sole e del caldo, il forno desolato che rende pazzi esercitavano uno strano fascino su Gacel; fascino che era nato una notte, molti anni prima, quando accanto al fuoco aveva sentito parlare per la prima volta della Grande Carovana e dei suoi settecento uomini e duemila cammelli inghiottiti da una macchia bianca senza che neanche uno solo di quegli uomini o di quegli animali avesse mai fatto ritorno.

Si dirigeva da Gao a Tripoli ed era considerata come la più grande carovana che i ricchi commercianti haussas avessero mai organizzato; era guidata dai più esperti conoscitori del deserto e trasportava sulle schiene di puri mehari una autentica fortuna in avorio, ebano, oro e pietre preziose.

Un lontano zio di Gacel, del quale lui portava il nome, la difendeva con i suoi uomini e anche lui si perse per sempre; come se non fossero mai esistiti, come se fosse stato solo un sogno.

Molti furono coloro che negli anni successivi si lanciarono nella pazza avventura di ritrovare le loro tracce con la vana speranza di impossessarsi di una ricchezza che, secondo la legge non scritta, sarebbe appartenuta a chi fosse stato capace di dissotterrarla dalla sabbia, ma la sabbia conserva bene il suo segreto. La sabbia era capace, da sola, di ingoiare sotto il suo manto città, forti, oasi, uomini e cammelli e probabilmente giunse, violenta e inaspettata, trasportata sulle braccia del suo alleato, il vento, per abbattersi sopra i viaggiatori, avvolgerli e trasformarli in un’altra duna tra i milioni di dune dell’erg.

Quanti morirono per aver perseguito il sogno della mitica carovana dispersa nessuno può dirlo e gli anziani non si stancavano di pregare i giovani di desistere dal pazzo tentativo.

«Ciò che il deserto vuole per sé, è del deserto», dicevano, «Allah protegga chi cerca di strappargli il suo bottino...»

Gacel ambiva soltanto a svelare il mistero, la ragione per cui tanti animali e uomini erano scomparsi senza lasciare traccia, e quando si trovò per la prima volta nel cuore di una di queste terre vuote lo capì, poiché si poteva pensare che non settecento, ma sette milioni di esseri umani potessero facilmente scomparire in quell’abisso orizzontale dal quale era strano che qualcuno, chiunque, potesse uscire vivo.

Gacel ne uscì. Per due volte. Ma di imohag come lui non ce n’erano molti e per questo il Popolo del Velo rispettava Gacel il Cacciatore, inmouchar solitario che dominava un territorio che nessuno mai aveva preteso di dominare.